Procida è tra le località nelle quali le differenze di classe della popolazione sono rese evidenti, in maniera più marcata, dalla conformazione degli edifici destinati ad abitazione.
Palazzi nobiliari, se ne incontrano pochi: forse, soltanto quello dei de Jorio (in piazza dei Martiri), quello dei Porta (nei pressi di piazza Olmo) e quello degli Scotti di Mase (impropriamente detto Ferrajoli, dal cognome del proprietario attuale; sorge in via Marcello Scotti). Li caratterizzano, oltre all’aspetto maggiormente “cittadino”, gli stemmi di famiglia, affrescati nelle volte degli androni (manca quello dei de Jorio); e quello degli Scotti di Mase ingloba nella struttura perfino una torre quattrocentesca. Più diffusi – “et pour cause” – sono i palazzi armatoriali, appartenuti alle famiglie dedite all’armamento di bastimenti a vela e appartenenti oggi, per lo più, ai loro discendenti. Con quelli nobiliari essi dividono l’apparenza “cittadina”, ma a connotarli è soprattutto la scansione fra il piano terra – una volta occupato dagli uffici dell’impresa armatoriale – e il piano superiore – destinato ad abitazione; talvolta, anzi, l’accesso agli uffici avveniva direttamente dalla strada, per evitare l’intromissione del pubblico nelle faccende private della famiglia. Parecchi di essi conservano ancora questa apparenza, come il palazzo – detto “di Franco” –, appartenuto ai Fevola-Di Martino (in via Marcello Scotti), quello dei Mazzella di Stelletto (in fondo a via Santo Janno), quello dei D’Ambrosio (di fronte al monumento ai Caduti) o quello dei Costagliola-Galatola (in via Principe Umberto).
Qualche buon esempio, poi, di palazzo signorile, non nobiliare, né armatoriale, pure s’incontra lungo le strade dell’isola: il più interessante è il palazzo Giaiuzzo (impropriamente detto Rosato, dal cognome di un proprietario successivo; sorge al trivio di San Leonardo), il cui cortile arieggia, sia pure in uno stile più “naïf”, quello del celebre palazzo dello Spagnolo a Napoli. Motivo, questo, che è ripreso, in forma ancor più “naïve” nel palazzo Mazzella, in via Principe Umberto.
Questo genere di architettura, però, è assolutamente comune anche a numerose altre località; viceversa, la peculiarità urbanistico-edilizia di Procida è costituita da quella che qualcuno ha definito “architettura spontanea” e altri architettura senza architetti”. Si tratta di una modalità edilizia che impiega esclusivamente le forme del cubo e del tronco di sfera, associandole, nel senso che su un primo cubo, completamente interrato e impermeabilizzato, che funge contemporaneamente da fondazione della struttura e da cisterna per la raccolta dell’acqua piovana (quella corrente è arrivata nell’isola soltanto nel 1957), venivano sovrapposti un altro o due altri cubi, realizzati in tufo e ripartiti all’interno in più ambienti abitativi. La copertura dell’edificio, infine, è costituita da una sezione di sfera, realizzata in battuto di lapillo vulcanico, mediante l’impiego di una centina di legno. A questa struttura, di per sé
estremamente lineare, venivano sovrapposti gli elementi architettonici più disparati, anche ornamentali, e soprattutto le scale rampanti esterne e i “vèfi” (< longob. “Waif” = balcone), terrazzini coperti, preceduti da un arco che poggia su un davanzale.
Questa modalità edilizia è caratteristica delle tre marine di Procida – Marina Grande, Corricella e Chiaiolella –, dove in qualche caso ha sfruttato anche la presenza di grotte, per ottenere un ampliamento dello spazio abitativo alle spalle della costruzione. E qui un’altra caratteristica viene ad aggiungersi a quelle fin qui descritte: ciascun modulo abitativo, infatti, veniva (ma ancor oggi viene) attintato con colori differenti dagli altri, perché il navigante, di ritorno nell’isola, potesse distinguere da lontano la propria casa.
È evidente, ora, come un tal genere di architettura, basato sull’impiego di forme e di materiali tipizzati, non richiedesse la preventiva progettazione da parte di un architetto, mentre era sufficiente l’intervento di un capomastro esperto, col notevole abbattimento dei costi, che assumeva primaria importanza per il ceto meno abbiente, al quale queste abitazioni erano destinate. Di qui le due definizioni alternative, che più sopra ho richiamato e delle quali la meno efficace mi sembra quella di “architettura spontanea”, che indurrebbe a pensare a realizzazioni estemporanee, piuttosto che a uno schema edificativo fisso, escogitato, in un primo tempo, da qualche capomastro particolarmente ingegnoso, ripetuto e tramandato all’infinito anche da altri suoi colleghi, con l’aggiunta di qualche pizzico di fantasia.