CENTODIECI È ARTE – ANDY WARHOL: FLOWERS
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Quando agli inizi degli anni Sessanta, Warhol lasciò la professione di pubblicitario per mettersi a lavorare come artista indipendente, non lo fece semplicemente per acquisire una maggiore libertà espressiva o per entrare ancora di più nella mente e nelle abitudini degli americani, ma per perfezionare la conoscenza, e indirettamente l’utilizzo, dei mezzi di comunicazione di massa. Per prima cosa prese le distanze da tutto ciò che era produzione e libera invenzione delle immagini. Non serviva ideare ex-novo quando nei circuiti industriali e intorno a lui esisteva già tutto: sarebbe stato sufficiente celebrare le figure proiettandole dal mondo dell’invisibile a quello visibile. Protagonista assoluto dei lavori dell’artista americano diventava l’oggetto, inteso come il prodotto comune appannaggio delle masse che, a prescindere dalla sua forma o funzione originaria, avrebbe dovuto essere un emblema ben solido nell’immaginario collettivo. L’esigenza di una produzione seriale, la volontà di ripetere i soggetti e di disporre a griglia più file di zuppe o di banconote nel minor tempo possibile, lo condusse alla scoperta di un procedimento tecnico che modificò il suo approccio all’arte visiva. Nel 1962 sperimentò, per poi non abbandonarla più, la tecnica della serigrafia fotografica. Un sofisticato processo di stampa nel quale un’immagine fotografica trasferita su una superficie di seta poteva essere velocemente duplicata su tela distendendo la stoffa sulla superficie da imprimere e, successivamente, applicando pittura o inchiostro con una spatola di gomma. Con questo sistema un’immagine poteva essere stampata in pochi minuti. Il procedimento, oltre che per le banconote e le zuppe Campbell, venne applicato anche alla sua personalissima collezione di fotografie d’infanzia, con personaggi quali ad esempio Elvis Presley, Warren Beatty e Natalie Wood, con sempre maggiore desiderio di creare un universo asettico, distaccato, standardizzato, comandato solamente dal dio denaro e dal consumo, nelle quali le campiture cromatiche si strutturavano alle stregua di un originale e imprevedibile make up. La presentazione era rigidamente frontale, tanto da ricordare la ieraticità bizantina; la serialità, invece, toglieva l’oggetto consueto da qualunque pensiero convenzionale. Nella serigrafia, l’artista americano non cercava il solamente il controllo tecnico, ma anche la casualità dei procedimenti che, di volta in volta, decideva di utilizzare. L’idea, comunque, doveva andare oltre il procedimento e l’esito estetico per fare assumere al lavoro artistico una caratterizzazione accessibile a una fruizione di massa.
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