Verso una apologia del dato
“Data is the new oil”: i dati sono il nuovo petrolio. È questo il motto, molto famoso, che circola in rete quando si parla di big data o – più in generale – del ruolo che i dati dovrebbero giocare all’interno delle nostre organizzazioni e della nostra vita.
I big data, termine che ormai ha calcato ampiamente le pagine dei quotidiani, si strutturano attorno al modello delle tre “V”, nel tempo divenute cinque, di Douglas Laney.
Più nel dettaglio essi presentano alcune caratteristiche fondamentali:
- Il volume: pensiamo alla quantità di informazioni che i nostri device wearable, i nostri smartphone, le applicazioni che utilizziamo costatatemene generano ogni giorno. Si pensi anche solo che il 90% del totale del traffico web è stato generato negli ultimi due anni.
- La velocità: basti un singolo dato, sono 350,000 i tweet inviati ogni minuto. È, inoltre, ben nota la notizia secondo la quale i messaggi di Twitter viaggino ben più veloci delle onde sismiche durante un terremoto: https://www.washingtonpost.com/blogs/wonkblog/post/tweets-move-faster-than-earthquakes/2011/08/25/gIQA4iWHeJ_blog.html
- La varietà: pensate semplicemente al numero di attività che avete fatto, da questa mattina, su uno qualunque dei social-network che frequentate. Commenti, like, interazioni, messaggi privati, visione di video…
- La veridicità: la correttezza delle informazioni che sono contenute all’interno dei dati.
- Il valore: strettamente connesso al punto precedente riguarda – o quantomeno dovrebbe riguardare – la capacità, vera sfida delle organizzazioni e del mondo di oggi, di estrarre valore dai dati e dalle informazioni che raccogliamo.
Al di là delle precisazioni di sorta, come sostiene Vincenzo Cosenza: “I dati sono diventati il quarto fattore produttivo, dopo i classici terra, lavoro e capitale.”. Questo ci obbliga a fare una seria riflessione sul peso che questi hanno sulla nostra vita e sul nostro modo di lavorare. Da sempre considerati appannaggio di scienziati e di personale tecnico specializzato i dati sono, in realtà, un tema che riguardano tutti noi in senso molto più ampio di quello che possiamo pensare.
Sono in grado di migliorare la nostra vita, di motivarci a dare il meglio, di spronarci a cambiare un comportamento non corretto aumentando il nostro grado di consapevolezza su temi che – fino a qualche tempo fa – ignoravamo e potevamo “permetterci” di non conoscere. Le Health App, in questo senso, sono una dimostrazione palese del fenomeno che stiamo descrivendo, contribuendo, tramite un insieme di dati e di informazioni sulla nostra persona, a migliorare la qualità della nostra vita: https://mindsea.com/health-apps/.
È medesima la riflessione per il marketing che può oggi attingere a un numero enorme di informazioni dai social media, orientando le proprie decisioni circa i prodotti o i servizi da comunicare e vendere ai consumatori.
O ancora, all’interno delle organizzazioni e del nostro mondo del lavoro, dove – se opportunamente impiegati e utilizzati – strumenti di analytics interna possono migliorare la gestione e il modo in cui lavoriamo. È il caso di Workplace Analytics di Microsoft, per citare uno dei tanti strumenti sul mercato, che, aggregando dati e informazioni che provengono dai vari strumenti che utilizziamo quotidianamente per lavorare ci consente di anticipare il burnout delle nostre persone, di migliorare la qualità del nostro lavoro e di evitare meeting o perdite di tempo inutili: https://www.panagenda.com/2020/12/preventing-employee-burnout-through-data-analytics-in-microsoft-365/
Misurare dunque, utilizzare i dati, non solo da un punto di vista matematico, ma all’interno di una strategia per migliorare la qualità del nostro lavoro e della nostra vita. Attenzione però, funziona se abbiamo ben definiti i nostri obiettivi e sappiamo cosa misurare, come suggeriva Seneca, ben prima dell’avvento dei big data: “Nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa a quale porto vuol approdare”.