Twitter e Meta mettono in vendita anche la sicurezza degli utenti
Sia nell’abbonamento di Twitter che in quello appena lanciato da Facebook sono incluse funzionalità che le grandi piattaforme dovrebbero fornire di default e che invece vengono proposte a pagamento. Perché la sicurezza costa e non è considerata un diritto.
Forse non è proprio l’ultimo “modello di business”, come titolava qualche tempo fa The Verge. Senz’altro le grandi piattaforme social, alle prese con un futuro non esattamente roseo e col ribaltamento di tendenze e abitudini, vogliono cominciare a guadagnare anche dalla sicurezza degli utenti. Come? Proponendo loro funzionalità fino a ieri gratuite, perfino scontate, implementate per default e oggi incorporate in una serie di offerte per le quali sborsare bei soldi ogni mese.
I piani in abbonamento di Twitter e Meta
Nel caso di Twitter servono infatti 8 dollari per assicurarsi l’abbonamento Blue (che diventano 11 su iOS a causa delle commissioni), che include anche la famigerata spunta blu, come d’altronde nel caso del programma appena lanciato e battezzato Meta Verified per 11,99 dollari al mese (addirittura 14 da mobile). Insieme allo specchietto del famigerato badge azzurro che fa sentire tutti delle celebrità in modo che nessuno lo sia più davvero vengono appunto veicolate altre feature a discapito di chi non pagherà un centesimo (almeno direttamente, perché online non esistono pasti gratis). Cioè ai danni della stragrande maggioranza degli utenti.
Le funzionalità a pagamento dedicate alla sicurezza
Quali sono queste funzionalità di sicurezza? Per Twitter si tratta della verifica a due fattori, ormai imprescindibile per difendersi dai furti di account e di identità, ma ancora impiegata in percentuali minime dagli utenti, che avviene attraverso l’invio di un codice temporaneo SMS sullo smartphone. Dal 20 marzo quella possibilità sarà riservata a chi è abbonato a Blue perché secondo Elon Musk l’azienda pagherebbe troppo per acquistare quei messaggini che poi usa per le verifiche di accesso. Agli altri, quasi tutti gli altri in realtà, rimane la possibilità di adoperare applicazioni esterne e gratuite come Authenticator di Google, che però conoscono e usano davvero in pochi. Il risultato complessivo rischia di essere una maggiore vulnerabilità generale degli account Twitter, intorno ai quali ruota già oggi un significativo giro di racket digitale.
Nelle scorse settimane Meta – cioè Facebook, Instagram, Whatsapp e Oculus – ha annunciato la sua formula di abbonamento, lanciata anzitutto in Australia e Nuova Zelanda. Oltre alla spunta blu di verifica, che si ottiene inviando un documento d’identità, il colosso di Mark Zuckerberg ha inserito nell’offerta, anche per renderla più appetibile, una serie di altri benefit. Molti per certi versi insensati rispetto a una protezione generale di base da proporre a tutti. Fra questi c’è appunto la possibilità di essere assistiti da un operatore in carne e ossa e non da un chatbot in caso di problemi col proprio account nonché “il monitoraggio proattivo dell’account per imitatori che potrebbero prendere di mira persone con un pubblico online in crescita”. Insomma, anche in questo caso chi è disposto a pagare ottiene una tutela rafforzata, gli altri si arrangino.
Il problema di fondo: piattaforme private di importanza pubblica
Se è vero che queste piattaforme sono prodotti privati sui quali i top manager fanno ciò che preferiscono e soprattutto ciò che risulta più profittevole per sé e per gli azionisti, è altrettanto vero che sono diventate ormai da anni piazze del dibattito pubblico mondiale. Oltre che luoghi di ricchi commerci sotto mille punti di vista diversi, dalle piccole aziende al marketing degli influencer. Sulle quali, dunque, il “pattugliamento” e la sicurezza dovrebbero essere diritti garantiti e uguali per tutti gli utenti. E invece, un po’ come se in una città la polizia si occupasse solo dei furti denunciati dai cittadini più facoltosi, le funzionalità più elaborate per tutelare account, privacy e attacchi di ogni tipo – o anche il mero tentativo di “rapimento digitale” e sostituzione di persona – non sono a disposizione di tutti. Un passaggio che appare ancora più grave perché non solo smentisce anni di stucchevole retorica aziendale con cui i dirigenti di Facebook, Twitter, ma anche Google e degli altri “behemoth” digitali ci rassicuravano sul fatto che nei loro recinti dorati avremmo potuto dormire sonni tranquilli. Ma anche perché abbassa appunto la soglia dei (pochi) diritti che possiamo aspettarci dalla rete del futuro: sempre di meno, sempre più blandi, a meno di non sborsare oltre l’equivalente di un abbonamento streaming per non fare assolutamente nulla. Perché l’assurdità è esattamente questa: paghiamo per poter essere bersagli di pubblicità e alimentare, con i nostri contenuti, una piattaforma che a quei contenuti aggancia le inserzioni per cui viene pagata. In cambio ci si offre un bollino da finti vip e un’assistenza che dovrebbe essere gratuita e per tutti. Un autentico capolavoro.
“Gran parte della Silicon Valley sta attualmente cercando di far pagare alle persone opzioni precedentemente economiche o gratuite – conclude Adi Robertson su The Verge – ma sui social network c’è un equilibrio tra le entrate di ogni singolo utente e la salute dell’ecosistema su più ampia scala. La sicurezza è in genere finita all’ultima estremità di quello spettro: è un elemento fondamentale di qualsiasi servizio digitale, un prerequisito essenziale per mantenere le persone con gli occhi incollati alle piattaforme. Ma mentre le aziende stringono la cinghia, c’è un forte incentivo a ricavarne una tariffa mensile lungo il percorso”.