Startup, PMI e grandi imprese: che cosa possono imparare le une dalle altre
La nouvelle vague delle imprese fa prevalere il modello “hipster” delle startup, archiviare quello delle grandi imprese e dimenticare quello delle PMI, che pur rimane l’architrave della nostra economia. Abbiamo davanti un sincretismo senza categorie aziendali definitive, un modello Coca Cola che porta le imprese a crescere o morire, oppure ci sono elementi da salvare e da buttare in tutti e tre i modelli, e magari utili vie di mezzo?
Startup Style
Ovunque spuntano startup: dal 2013 sono cinquemila quelle innovative che danno lavoro a non più di seimila persone (millecento solo in Lombardia). Da una parte ci sono loro, nuove aziende spesso fatte di e da giovani, con un business nuovo ma senza una struttura, dall’altra le grandi imprese, le uniche che ancora si possono permettere investimenti in formazione, ricerca e sviluppo, pur essendo dei pachidermi lenti senza una rotta (un esempio su tutti: l’editoria) o diretti verso qualche iceberg pur avendo spento i motori.
Nel mezzo ci sono le PMI, i cui prodotti si toccano con mano, che spesso sopravvivono con fatica oppure si lanciano di testa verso mercati inesplorati. Ora che ai due modelli prevalenti si è aggiunto un terzo, c’è un modo affinché il management apprenda da ognuno e travasi da ciascuno qualche buon esempio per il futuro?
I punti di contatto
Negli ultimi anni, i punti di intersezione emersi tra PMI e BIG sono stati tanti. Il più evidente è che il lento sgretolarsi delle grandi imprese ha gemmato miriadi di micro imprese artigiane, per lo più di ex (bravi) dipendenti delle grandi, che si sono fatte piccole e poi medie attraverso la sub fornitura dedicata propria alle aziende in cui prima lavoravano. Ecco allora spuntare qui le prime startup ante litteram del canavese, della Val Trompia o del basso bresciano, delle Valli Bergamasche o di Prato, schizzate fuori (spinoffate) dall’indotto di FIAT, Lucchini, Dalmine o da grandi aziende tessili.
Tra PMI e Startup invece, salvo qualche timido caso di successo più spesso imperniato sulla comunicazione digitale e a causa di un imprinting culturale diversissimo e avulso, non ci sono stati molti punti di contatto. Una diffidenza che forse nasce dall’idiosincrasia congenita verso tutto ciò che sembra frivolo (le startup) e che lascia fuori dal capannone la modernità spinta, apparentemente inconcludente, del tablet e delle app, chiudendolo a doppia mandata nella concretezza forzata di macchine a controllo numerico che stampano viti o bulloni (facciamo un giro in Brianza da Brugola?) che però conquistano i mercati esteri e fanno dell’Italia il secondo esportatore dopo la Germania.
BIG – ristrutturazione contro creazione, ricavi e utili contro raccolta
Chiedere umiltà per questo startup style è difficile, perché in fin dei conti è molto di moda e per questo gode di spazio sui media. I Becattini, i Cipolla, i Coltorti e i Berta, professori ed esperti che hanno scritto molto di sistemi d’impresa, PMI e grandi aziende, non hanno mai visto tanta glamourizzazione per un modello di business che non ha ancora dato i frutti attesi.
La tristezza delle multinazionali tascabili, del quarto capitalismo e della produzione in serie infatti non può nulla contro quello che Priceonomics chiama Hipster Business Model: un impianto in cui, di fronte alla prospettiva di una feroce competizione per i posti di lavoro nelle grandi imprese, molti giovani stanno invece scegliendo di iniziare il loro proprio business con una startup. Ecco che fare da soli e “startupparsi” diventa una risposta diretta a disintermediare le strutture e i percorsi lunghi delle grandi imprese, da anni impegnate in cicliche ristrutturazioni (i media ne fanno una ogni due anni) in cui asset importanti vengono venduti, confuse con rinnovamento e ricambio generazionale, mentre i posti sono occupati da élite inchiodate alle sedie e il turn over sta a zero.
Il contributo delle startup alle grandi sta infatti nel portare la cultura del “ricominciare da capo” dove invece da una ventina d’anni regna quella della “ristrutturazione continua”. Ma anche qui, alla cultura startup mancano poi i fondamentali, ed è il momento buono per riportare a terra gli entusiasmi con cui si sono esaltate le prime big, ora riportate a più miti consigli dopo capitalizzazioni miliardarie da record (ricordate gli Unicorni?).
Back to basics
La più evidente delle illusioni da eliminare, che imbrogliano il sistema dei nuovi arrivati e allontanano dalla semplicità del Conto Economico che li dovrebbe guidare, è la confusione tra raccolta e ricavi, che fa prevalere la ricerca di investitori, mentre la vera ossessione dovrebbe essere per i clienti.
Annunciare infatti partnership milionarie e quotazioni, tutte finalizzate a rimpolparsi di investimenti, senza avere sotto gli occhi una curva dei ricavi prevedibili, e soprattutto giustificata, è un inganno, prima che verso gli investitori, anche per se stessi.
Questa apertura del capitale (obbligata per le startup) può certamente essere da buon esempio per quella (facoltativa) cui dovrebbero abilitarsi le PMI con Ipo e fondi di Private Equity, ma deve assolutamente essere un’occasione per mostrare al mercato la prospettiva vera di generazione degli utili. Questa sì va comunicata con chiarezza, perché in fondo, vale per tutti: non si può ricapitalizzare per sempre.