Social Media e aziende: perché per funzionare davvero servono figure terze
Sebbene ci si accorga sempre di più che i cosiddetti influencer sono stati per molti versi sopravvalutati, al punto che in molti oggi consigliano alle aziende di rivolgersi a profili meno popolari e acclamati per puntare ad un’interazione più autentica e più semplice da gestire, questi primi 20 anni di social media mostrano chiaramente che le aziende hanno ancora bisogno di “sponde” e di figure esterne per arrivare alle persone e creare community vive e costruttive.
I motivi di questa situazione sono molti e analizzarli è l’unico modo per trovare il percorso di ciascun mercato, di ciascun settore e di ciascuna azienda su queste piattaforme, che non nascono per fare marketing e pubblicità, ma per condividere, interagire e comunicare con gli altri dialogando e confrontandosi.
Questa vera e propria rivoluzione ha trovato le aziende impreparate, perché fino alla nascita e alla diffusione di piattaforme come Facebook, Twitter, LinkedIn e simili erano abituate a calare dall’alto la propria comunicazione e il proprio marketing, in modalità “uno a molti” e in modo unidirezionale.
Le aziende studiavano il mercato, progettavano e costruivano prodotti e poi ne veicolavano l’esistenza sui media, esaltandone le caratteristiche e i pregi senza pressoché nessuna possibilità di replica da parte delle persone. Questa modalità era assolutamente in linea con i tempi e con un’epoca in cui tutto era da fare, con mercati enormi pronti ad assorbire ogni novità e mai sufficientemente saturi. Dalla fine del XX secolo tutto è cambiato.
Oggi sarebbe impensabile per un’azienda non usare i social media per coinvolgere le persone e interagire con loro, ma incredibilmente è ciò che continua ad accadere spesso, laddove la presenza non sia supportata da competenze e attitudine. Molte aziende non riescono o non vogliono comprendere la differenza tra i media non interattivi e i social, sui quali veicolare esclusivamente pubblicità, anziché cercare interazione e confronto, non ha alcun senso e poco riscontro.
Ecco perché soltanto poche imprese hanno trovato in questi anni la loro strada sui social, circostanza che spesso si è verificata a seguito del coinvolgimento di figure terze: quegli influencer di cui da anni si parla in molti modi, ma che quasi mai sono individuati e descritti esattamente per quello che sono.
Oggi associamo infatti quella definizione a personaggi come la Ferragni o Fedez, Belen o Gianluca Vacchi, ma quei nomi, che pure in molti casi hanno iniziato ad emergere proprio dai social e dalla Rete, sono ormai talmente famosi da rientrare a pieno titolo nella categoria dei VIP, insieme a calciatori, piloti, cantanti, attori, etc.
Collaborare con queste figure è per la stragrande maggior parte delle aziende assolutamente proibitivo e, paradossalmente, quando il budget non rappresenta un problema il risultato non è comunque garantito né certo.
Il motivo è semplice: quei personaggi sono ormai considerati testimonial, anche quando collaborano con aziende che operano nel loro stesso settore, di cui hanno competenza e pratica. Inoltre, il loro rapporto con la propria community è più rarefatto e mediato, in ragione della dimensione della loro audience e della loro condizione, che rende il rapporto con le persone inevitabilmente meno intimo e quotidiano.
Al contrario di figure come queste, i cosiddetti micro influencer e i creatori di contenuti digitali sono molto più utili alle aziende e molto più in linea con le loro esigenze. Una tra tutte: quella di arrivare alle persone e di coinvolgerle, oltre che informarle e raggiungerle con i propri messaggi.
I motivi per cui servono figure terze per avvicinare le persone alle aziende è probabilmente imputabile proprio alla distanza che intercorre tra la natura dei social media e il vecchio approccio unidirezionale della comunicazione e del marketing.
I micro influencer e i creatori di contenuti digitali sono da sempre abituati ad un approccio diametralmente opposto, attraverso il quale interagiscono con le persone e le aiutano a comprendere meglio prodotti, servizi, soluzioni e opportunità offerte dal mercato, a partire dai problemi più comuni e dalle reali esigenze delle persone.
A differenza di quanto facciano le aziende, queste figure non si limitano a comunicare la disponibilità di ogni nuovo prodotto o soluzione e non necessariamente ne tessono le lodi, ma spiegano semmai cosa ci si può fare, come si può ottenere il meglio e quali aspettative si possano riporre, instaurando con le persone dialoghi che sono preziosi per chi partecipa e chi ne fruisce.
Le loro competenze a loro terzietà, quando c’è ed è autentica, sono una garanzia concreta che le persone possono fidarsi e arrivare alle aziende con cui essi collaborano non più da consumatori pronti ad acquistare senza troppe domande. I loro “influencer” di riferimento diventano così un tramite e una lente per leggere e riconoscere le sfumature che sono inevitabilmente presenti tra la narrazione pubblicitaria, il marketing e la realtà di ciò che acquistano, usano o fruiscono.
Ecco perché conviene instaurare con loro rapporti autentici e lasciarli il più possibile liberi di esprimere ciò che pensano davvero, a rischio di dover mandar giù qualche boccone amaro, perché più ciò che scrivono e fanno è genuino tanto più le persone si affezionano a loro e alle aziende con cui hanno rapporti e collaborazioni, che non vedono come mere azioni pubblicitarie ma come opportunità per capire di più e meglio.