“By The People, For The People”: la sfida delle emoji fra identità, diversità e inclusione
Le emoji fanno parte della nostra comunicazione quotidiana, sempre più compulsiva. Invasive, efficienti, rapide, spesso ci risparmiano gli sforzi linguistici e ci traggono d’impaccio in modo veloce. E anzi, per alcuni esperti costituiscono addirittura una specie di nuovo esperanto: un idioma internazionale in linea di massima comprensibile a molti, se non a tutti. Anche se diverse indagini hanno confermato come esistano differenze spesso anche significative nella percezione e della decodificazione di alcune emoji a seconda dei contesti in cui vengono usate o dei momenti in cui vengono inviate. In ogni caso quei pittogrammi introdotti in Giappone alla fine degli anni Novanta dall’operatore telefonico SoftBank sono un potente sistema di comunicazione visiva e, di più, un modo per esprimere meglio chi siamo, trovando magari oggetti o raffigurazioni che ci rispecchino. E che spesso, invece, non ci sono.
Non è d’altronde un caso che, in particolare negli ultimi anni, il Consorzio Unicode, l’ente internazionale che si occupa di orchestrare la standardizzazione dei caratteri e l’interoperabilità fra i dispositivi di produttori diversi che usano sistemi differenti, stia spingendo molto sull’aggiunta di emoji che si occupano ad esempio di disabilità, inclusività di genere e varietà etnica e culturale. Tentando di recuperare terreno rispetto alla rappresentazione di realtà colpevolmente poco considerate.
“Come recita il famosissimo motto, “il medium è il messaggio” – spiega un’indagine di Adobe, il colosso californiano dei sotfware per la grafica, i documenti e la fotografia – i mezzi che usiamo per esprimerci ci aiutano a condividere la nostra narrazione personale, rappresentare i nostri valori e aiutare gli altri a comprendere chi siamo, con l’obiettivo di generare più empatia e comprensione verso le nostre cause personali. Per favorire una comunicazione migliore, Adobe ha commissionato uno studio mondiale sugli utenti delle emoji per valutare la capacità di questo sistema di rappresentare in modo accurato l’identità fisica e culturale e gli interessi personali, oltre a cercare soluzioni per consentire alle emoji di evolversi e affrontare questi problemi nel futuro. Adobe prosegue la partnership con Emojination, che si batte per una raccolta di emoji più inclusive e rappresentative e per generare un cambiamento sul lungo termine”.
Il punto di partenza del Global Emoji Diversity & Inclusion Report è in fondo molto semplice: se non siamo in grado di esprimerci con accuratezza perché non troviamo un simbolo che ci rappresenti davvero, o rappresenti i nostri interessi e i caratteri precipui della nostra esistenza, perdiamo l’opportunità di condividere aspetti importanti della nostra personalità con gli interlocutori. Nel sondaggio di quest’anno Adobe ha interpellato 7mila utenti che utilizzano frequentemente le emoji, provenienti da sette Paesi: Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia, Giappone, Australia e Corea del Sud. Pur essendoci senza dubbio alcune differenze locali, dall’indagine emergono tuttavia molte tendenze comuni: secondo la maggioranza delle persone intervistate (83%), ad esempio, abbiamo bisogno di emoji che ci rappresentino in modo più inclusivo.
Culture, età e gruppi etnici
Il primo fronte è quello delle culture, dell’età e dei gruppi etnici. Chi ha partecipato allo studio crede infatti che serva più inclusione innanzitutto nella rappresentazione di queste dimensioni dell’esistenza. Di questa opinione sono soprattutto le persone poliglotte e quelle appartenenti alla Generazione Z (il 41% desidera che la cultura sia meglio rappresentata nelle varie opzioni delle emoji).
D’altronde solo la metà degli utenti crede che la propria identità sia accuratamente rappresentata nelle emoji attualmente disponibili (54%). La questione non si limita all’identificazione didascalica: le emoji possono anche aiutarci a trasmettere in modo più accurato i nostri sentimenti, una funzione ancora più importante in questi tempi di distanziamento e isolamento. Chi non si sente rappresentato, potrebbe decidere di non utilizzare affatto questo strumento comunicativo.
La rappresentazione della disabilità
L’ambito della disabilità è ancora fortemente sottorappresentato. Secondo lo studio di Adobe, infatti, meno della metà delle persone con disabilità o invalidità si sente rappresentata nelle emoji attualmente disponibili (37%). Alcuni individui con disabilità che hanno partecipato al sondaggio vorrebbero che le emoji includessero più “oggetti utili” oltre a quelli recentemente introdotti come la carrozzina, il bastone per le persone con disabilità visiva o gli ausili per l’udito. Ma la questione è delicata, più di quanto si pensi: alcune persone intervistate ritengono al contrario che ridurre la loro disabilità alla sintesi di un oggetto potrebbe minare la loro capacità di esprimersi in modo autentico. È chiaro che le emoji dovrebbero aiutare le persone con disabilità a sentirsi più rappresentate. Bisogna capire con esattezza in che modo farlo nella maniera più efficace.
Capelli, occhi, accessori: la personalizzazione
Quanto alle fattezze e ai connotati, la personalizzazione delle emoji per aspetti come il colore della pelle “ha sicuramente reso questo strumento più inclusivo” dice il Global Emoji Diversity & Inclusion Report. Si tratta di uno sviluppo dal successo indiscutibile ma non basta: le persone vogliono di più. Per riflettere al meglio il proprio aspetto desiderano alcune opzioni di personalizzazione come il taglio o più opzioni per il colore di capelli, gli accessori, la corporatura e il colore degli occhi. La maggioranza degli utenti in tutto il mondo in effetti personalizza le proprie emoji (55%) e vorrebbe disporre di più opzioni di modifica per riflettere meglio la propria identità (58%).
Non solo: quasi sette utenti su 10 (68%) che si riconoscono nella comunità LGBTQI2+ personalizzano le proprie emoji: anche in questo caso il 72% vorrebbe avere a disposizione più opzioni. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito l’85% delle persone appartenenti alla comunità nera, il 72% di quella asiatica e il 78% di quella latina vorrebbe personalizzare i pittogrammi digitali. Ma non può perché le scelte sono ancora limitate. La maggioranza delle persone intervistate in tutto il mondo crede che più opzioni di personalizzazione potrebbero aiutare a colmare i gap nell’inclusione (78%).
Sembra una battaglia minimale ma per il 77% degli intervistati appartenenti alla Generazione Z e per il 75% dei Millennial è un fronte che ha un’importanza profonda: emoji più inclusive possono innescare e sollevare un dibattito positivo su importanti temi sociali. Sempre in America e Gran Bretagna, per esempio, le persone appartenenti alle comunità nera (85%), asiatica (85%) e latina (77%) che utilizzano le emoji credono che questi ultimi possano contribuire positivamente al dibattito su questi temi. Altri gruppi in tutto il mondo condividono lo stesso (se non maggiore) ottimismo riguardo al potere delle emoji. Secondo molti membri della comunità LGBTQI2+ (63%), persone con disabilità (61%) o poliglotte (61%) le emoji potrebbero diventare ancora più progressisti nei prossimi cinque anni.
Le sfide che attendono le emoji dei prossimi anni riguardano diversi aspetti. Una delle più complesse tocca le dimensioni, per cui introdurre troppi dettagli è spesso complesso o sostanzialmente inutile perché rimarrebbero indistinguibili e anzi aumenterebbero la confusione. Si pensi ad esempio al colore degli occhi, a patto di non declinare in tinte diverse quella dell’occhio. Ma anche i dettagli apparentemente minimali possono avere un impatto. E se si ha un’idea su un aspetto fondamentale ci si può appoggiare ad associazioni come Emojination – nata cinque anni fa – che condurrà le persone a presentare proposte e candidature. Come spiega il motto dell’organizzazione, le emoji devono essere “By The People, For The People”.
“Il sostegno di Adobe è stato fondamentale per le attività che Emojination ha portato avanti negli ultimi cinque anni al fine di avere emoji più inclusivi e rappresentativi. Ci permette anche di sostenere le persone appassionate che si battono per vedere rappresentate sé stesse e le proprie culture, portando all’approvazione di emoji per il sari, l’hijab, il boomerang, la piñata, la matrioska, l’arepa e il bubble tea” conclude Jennifer Lee, cofondatrice di Emojination.