Sessant’anni fa, un uomo orbitò attorno alla Terra. E cambiò la storia
“Da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere né confini”
(Jurij Alekseevič Gagarin)
La storia dell’Uomo cambiò una mattina di primavera.
O, almeno, era mattina là dove la rivoluzione iniziò, a Baikonur, cittadina sovietica emersa dal nulla e circondata dal niente, cioè da 500 chilometri di steppa kazaka.
Ai tempi, alla base missilistica kazaka tenuta segreta dall’Unione Sovietica – in realtà scoperta dagli U2 americani già nel ’57 – funzionava così: prima che ogni razzo accendesse i motori, tutti quelli che stavano nei pressi della piattaforma venivano evacuati in zone sicure. Così era successo il 4 ottobre del 1957, quando dalla rampa era partito lo Sputnik, il primo oggetto fabbricato dall’uomo a superare i confini dell’atmosfera terrestre. Così era successo anche quando a bordo di un altro Sputnik, il 2, a superare ogni vincolo planetario era toccato alla cagnetta Kudrjavka, da noi nota come Laika e più celebre che fortunata. E sempre così, con il fuggi fuggi generale poco prima del decollo, erano stati salutati Belka e Strelka, altri due cagnolini meno famosi ma più fortunati di Laika, se non altro perché destinati a diventare i primi esseri viventi a tornare sani e salvi sulla Terra dopo un volo orbitale. Ma quella mattina di primavera, quando la storia dell’Uomo cambiò, andò in modo diverso.
Per essere precisi, quando la storia iniziò a cambiare, nel cosiddetto “cosmodromo” di Baikonur erano le 11:07 (le 9:07 a Mosca) del 12 aprile 1961.
Il 12 aprile del 1961, a garanzia del fatto che tutto sarebbe filato liscio, l’evacuazione venne proibita. In più, al Progettista Capo del programma spaziale, Sergei Korolëv, mitologico spauracchio per Washington il cui nome era stato addirittura nascosto al momento di proporgli un premio Nobel per lo Sputnik, ebbene, al Progettista Capo, Nikita Chruščëv in persona chiese un documento scritto che garantisse la riuscita del volo. Si narra che Korolëv l’avesse firmato, salvo imbottirsi di tranquillanti pochi minuti prima del countdown.
Come dargli torto? D’altronde si sarebbe tentato il viaggio fin lì più ambizioso della storia.
Alle 9:07, ora di Mosca, un giovanotto di 27 anni urlò “Poechali!” (“Andiamo”) quindi, raggomitolato come un gatto dentro una capsula Vostok in cima a un razzo Semyorka, si staccò da terra.
E dalla Terra si separò: ne oltrepassò l’atmosfera qualche minuto dopo e prese a girarle attorno fino a 28.260 chilometri l’ora. Nessuno l’aveva mai fatto prima.
Una volta in orbita, il 27enne confermò che la Terra fosse blu e senza confini visibili, quindi aggiunse un paio di altre considerazioni chissà quanto vere o dettate dall’opportunismo ideologico (se non platealmente posticce, come quella che intitolò la sua autobiografia, Non c’è nessun Dio quassù). A quel punto, si rituffò nei cento chilometri di involucro gassoso che proteggono il globo terracqueo e quando a Mosca erano le 10:55, dopo un non facilissimo lancio con paracadute, calpestò il terreno di una fattoria collettiva a Smielkova, provincia di Saratov, nella Russia occidentale. Il sito di atterraggio non era molto distante dalla campagna di Smolensk, dove mamma Anna Timofeevna e papà Aleksej Ivanovič, “due semplici russi ai quali la Rivoluzione d’ottobre ha dato una vita piena e dignitosa”, l’avevano messo al mondo.
Il suo nome in codice, quello del 27enne che quel mondo lo stava cambiando per sempre, era “Cedro”; quello di battesimo, Jurij Alekseevič Gagarin, da quel 12 aprile diventato il primo cosmonauta. Il primo uomo, cioè, a dimostrare quanto fosse vero il motto del “padre dei voli spaziali”, Kostantin Ciolkovskij: “La Terra è la culla dell’umanità, ma non si può vivere per sempre in una culla”.
Gagarin lo aveva appena confermato: il sogno del genere umano di diventare extra planetario adesso era realtà.
Quella mattina di primavera, il “Colombo dello spazio” non si limitò a decollare tenente e atterrare eroe, forse l’unico vero riferimento esportabile dell’Unione sovietica, “un idolo più popolare dei Beatles, di Marilyn Monroe e di Che Guevara” scrisse il biografo Lev Danilkin; il suo lancio incise un solco nella Storia, di quelli che segnano un prima e un dopo.
La cronaca narra che Anikhayat Takhrova e i suoi cinque figli, mentre piantavano patate, vennero spaventati a morte dall’avvicinarsi di Gagarin, appena atterrato e ancora con tuta di volo arancione e casco addosso (sopra la visiera, la scritta “CCCP” era stata apposta pochi minuti prima del lancio, proprio per evitare che, una volta atterrato, qualcuno lo scambiasse per una spia nemica). Ma l’incredulità dei contadini che in quel di Smielkova videro per primi il primo cosmonauta fu poca cosa rispetto a quella del mondo intero, che almeno nella sua parte comunista la sera stessa celebrava Cedro come un emblema nazionale.
Altrettanto incredula, l’altra metà del mondo, quella guidata dagli Stati Uniti d’America, reagì peggio. Anzi, male: come dimostrò un sondaggio nei giorni immediatamente successivi, il 41% dei cittadini considerava l’Unione Sovietica la nazione militarmente più potente del Globo, contro il 20% ancora convinto che la superpotenza dominante fosse l’America. Era esattamente quello che voleva Chruščëv.
Davanti a una Commissione del Congresso statunitense, Wernher von Braun, l’ex SS cui si dovevano le V2 naziste e poi i progressi del programma spaziale americano, non le mandò a dire: era necessaria una “vigorosa azione” per annullare “l’evidente superiorità” dell’Unione sovietica.
Detto altrimenti, gli Stati Uniti tornarono ad avvertire lo shock e l’imbarazzo già provati ai tempi del primo Spuntik, quando la palla di metallo larga 58 centimetri e capace di emettere un “bip” dallo spazio aveva infranto l’illusione di essere l’avanguardia del genere umano dal punto di vista tecnologico, scientifico e militare.
In quel momento infatti, ben prima del volo di Gagarin, l’America si era accorta di essere sull’orlo dell’abisso.
Lo Sputnik, l’occhio spia comunista, ritenuto una barzelletta fino a qualche settimana prima per la presunta arretratezza tecnologica del blocco sovietico, nell’ottobre del ‘57 sorvolava chiunque indisturbato. Con la sua implicita capacità di vedere e poter colpire ogni cosa, dallo spazio minacciava il Paese intero: le famiglie, le città, la “civiltà del mondo libero”. E, ancora più grave, nessuno sapeva davvero come contrapporsi. Al Congresso qualcuno aveva paventato ci fosse in gioco “l’estinzione della specie”. Beninteso, occidentale.
Come qualche anno dopo avrebbe scritto Tom Wolfe, “il mito arcaico del duello veniva riproposto nella sua più avanzata versione tecnologica. Non erano più i due migliori combattenti a sfidarsi con clava o spadoni per sancire, con la propria sorte in battaglia, quella dei rispettivi eserciti. Era l’apparato tecnologico e politico a dover dimostrare la capacità di distruggere la patria nemica per difendere la propria”.
Questo era stato lo Sputnik, prontamente ribattezzato “Luna rossa”. Questo evocavano i suoi flebili ma costanti bip sui 20 e 40 Mhz: il trasferimento della Guerra fredda oltre i confini terrestri.
Lì, nello spazio, si sarebbe d’allora in poi dimostrata la superiorità di una visione del mondo su quella contrapposta.
Figurarsi quando, invece di una palla di metallo, a girare attorno alla Terra fu lui, il primo uomo: 157 centimetri di leggenda soprannominata Cedro.
Il punto è proprio questo: perché a sessant’anni di distanza, quella mattina di primavera rimane una tappa fondamentale della nostra storia collettiva? In fondo anche l’idolatria per Gagarin, a volerne analizzare l’impresa, rischia di sembrare ingiustificata: con sole 230 ore di volo all’attivo e a bordo di una capsula automatica, il primo cosmonauta non era il pilota migliore al mondo e nemmeno l’uomo più intelligente o coraggioso in circolazione. Perché allora dovremmo mostrare ancora interesse per Gagarin, quando ogni suo record fu frantumato poche settimane dopo da German Titov, o quando a pochi giorni da quel 12 aprile, Harold Graham volò con successo indossando uno zaino a reazione, 13 secondi in cui i rischi erano maggiori rispetto a quelli affrontati in orbita da Cedro?
La prima risposta è storica: piaccia o meno, se ne condivida il sottotesto ideologico o lo si rifiuti a piè pari, Gagarin costituisce una figura che, continua Danilkin, “rappresenta una giustificazione morale e una testimonianza della correttezza storica del progetto utopico sovietico, che certamente fu disumano in una delle sue fasi. Una giustificazione morale, ma anche una prova della sua ‘normalità’, naturalezza, poiché fu in grado di produrre una discendenza sana; nessuno dubita che Gagarin con il suo sorriso, la sua spontaneità, il suo incredibile magnetismo, con i suoi geni evidentemente sani, addirittura alla Riefenstahl, rientri appieno in questa definizione.
Infine per i ‘sognatori’, la vita di Gagarin rappresenta un’esperienza di assoluta libertà, di incredibile passione per il volo, e lo stesso Gagarin costituisce l’incarnazione della sintesi di Uomo, Macchina e Stato, la personificazione degli anni Sessanta e del loro commovente progetto per il futuro. L’angelo che ha permesso all’umanità di vivere un momento fantastico, in cui tutti all’improvviso si sono messi a pensare non ai soldi, al sesso o alla carriera, ma alle stelle e allo spazio come possibile paradiso”.
Un paradiso che costituisce il secondo e ben più importante motivo per celebrare, ancora, quel 12 aprile. Perché è un paradiso che mai come oggi, sessant’anni dopo, torna a sembrare a portata di mano. Anzi, alla portata dei nuovi e avanguardistici progetti di esplorazione spaziale dell’uomo.
Da quel 12 aprile sono infatti cambiati i presupposti delle nostre attività spaziali. È mutata, in modo significativo, la cornice geopolitica e si sono aggiunti interessi e attori extra-atmosferici. Quel che non è cambiato è l’impeto umano a spingersi oltre, a raggiungere i propri limiti solo per superarli.
L’importanza rivoluzionaria di quella mattina di primavera, seppur subito evidente, si è palesata negli anni, nei decenni successivi. Fino a stamattina.
Per questo le righe che state leggendo non sono una rievocazione, o almeno non vorrebbero limitarsi alla celebrazione di una data, per quanto storica fra quelle storiche.
Sono l’invito a soffermarsi su una cosa più importante, via da romanticismi o dall’aneddotica spiccia: qual è l’eredità di quella data epocale? Che cosa rimane, nel 2021, della capatina extra-atmosferica da un’ora e mezzo del 27enne Cedro? E, ancora più rilevante, quali saranno le sue conseguenze su un’era che in molti già indicano come quella di una nuova “corsa allo spazio”?
La domanda è retorica, contiene già la sua risposta: l’eredità più imponente di quella rivoluzione primaverile è, senza esagerazioni, il nostro futuro. Quello prossimo, immediato ma non solo. Quello spaziale, immediato ma non solo.
Spinta come forse solo negli anni Sessanta, oggi l’attività spaziale riconfigura oltre l’atmosfera la nostra vita collettiva. Punta a migliorare, giorno dopo giorno, il nostro vivere quotidiano, sviluppando scienza, tecnologia, competenze e visioni subito o poco dopo tradotte in progresso. Oggi, dallo spazio, arrivano hardware, servizi e applicazioni innovative capaci di affrontare sfide quotidiane, di rispondere a domande che ancora non ci siamo fatti.
“Fuori dalla Terra, per la Terra” recita, e non è un caso, il motto che da vent’anni racconta perché ci ostiniamo a spedire gli eredi di Gagarin sulla Stazione spaziale internazionale.
Beninteso, non è quella delle applicazioni derivate dallo spazio una frontiera limitata alle attività di esplorazione umana – basterebbero l’infinità dei servizi satellitari, o le attuali missioni robotiche su Marte a ricordarlo; ma è quando l’uomo è coinvolto che il superamento dei nostri orizzonti si manifesta come patrimonio collettivo. È quando qualcuno varca un confine fin lì ritenuto invalicabile che il genere umano fa un passo avanti. E non solo simbolico.
Per non sembrare ingenui, è bene ripeterlo: accanto al prestigio politico e all’implicita valenza strategico-militare già presente all’epoca di Gagarin, oggi lo spazio affianca nuovi interessi economici, ambizioni commerciali di attori fino a pochi anni fa avulsi dal settore, nonché tutti i rischi di una frontiera percepita anche come territorio di conquista. Basterebbe il Memorandum of Understanding siglato un mese fa da Cina e Russia per la realizzazione di una base lunare congiunta a smentire chi si illuda che oltre l’atmosfera le conflittualità terrestri svaniscano nel vuoto.
Eppure è proprio lì, tendenti a quell’infinito che Gagarin lambì per primo, che l’immaginario umano si ritrova unito, quasi che a volare per la prima volta sulla Iss con la Crew Dragon di SpaceX lo scorso maggio non siano stati due americani partiti dall’America, ma donne e uomini di tutto il mondo.
Per questo i nuovi obbiettivi spaziali sono la migliore eredità di Gagarin, l’eroe più internazionale dell’Urss, quello capace di superare i confini dell’ideologia comunista, oltre che quelli dell’atmosfera terrestre.
In fondo, i primi astronauti (statunitensi) che con il programma Artemis torneranno a mettere piede sulla Luna – sempre meno probabilmente nel 2024 – non sono figli esemplari di Gagarin? E che dopo le prime missioni, il programma si prefigga di tornare con continuità sul suolo selenico “per restare”, avvalendosi della collaborazione internazionale, non conferma come le missioni umane nel cosmo cristallizzino uno sforzo congiunto?
Vero, all’appello, anche nella realizzazione della prossima base cislunare, il Lunar Gateway, a oggi mancano ospiti importanti. Ma sebbene da calibrare con attenzione, come confermato dal direttore generale dell’Esa Josef Aschbacher, il futuro non preclude missioni in cui taikonauti cinesi, astronauti americani, russi, giapponesi, indiani, arabi ed europei condividano mezzi, missioni e obbiettivi.
Si punterà ad andare lontano, oltre, senza dimenticarsi dell’orbita più prossima al nostro Pianeta: inaugurato da progetti come quelli di Axiom Space per la prima stazione spaziale commerciale, oppure come la prima base modulare cinese, o ancora come i voli suborbitali che promettono di riconfigurare i viaggi terrestri oltre che la ricerca, lo sfruttamento commerciale dei lanci umani in orbita bassa prepara un nuovo capitolo della nostra evoluzione.
Nel frattempo, equipaggi come quello, già annunciato, di Ax-1, la missione commerciale di Axiom prevista nel 2022, ricordano come un volo extraterrestre rimanga ancora appannaggio esclusivo di chi disponga di soldi a non finire. Ma analizzandole meglio, anche queste operazioni contengono promesse in divenire, come Ispiration4. La prima missione completamente privata che porterà, a fine 2021, quattro persone in orbita attorno alla Terra per quattro giorni, avrà a bordo Hayley Arceneaux, assistente medico di 29 anni (due più di Gagarin) al St. Jude Children’s Research Hospital. Dell’ospedale dedicato alla ricerca e alle cure pediatriche, Arcenaux è stata paziente, affetta da un tumore osseo che è stata in grado di superare. Durante Inspiration4, incarnerà l’ideale della Speranza, quella che la missione vuole tradurre concretamente in una donazione per le cure pediatriche di almeno 100 milioni di dollari.
Non è un’indicazione marginale nei giorni in cui l’Agenzia spaziale europea ha inaugurato la sua prima selezione per astronauti dal 2009. Non lo è perché i pilastri concettuali del nuovo concorso europeo – aperto fino al 28 maggio prossimo – sono la riduzione degli squilibri di genere e l’inclusione di portatori di disabilità (fisiche), nell’ambito del “Para-Astronaut Project”. Una prima volta assoluta nella storia dell’esplorazione extraterrestre.
Proprio come quella mattina del 12 aprile 1961. Quando il 27enne Jurij Gagarin, nome in codice “Cedro”, superò i confini dell’Uomo e li cambiò per sempre.