Se acquisti e sostenibilità vanno a braccetto, le vendite aumentano
Immaginatevi ogni giorno nella vostra attività di consumatori: quali sono le leve che vi fanno scegliere un prodotto o un servizio anziché un altro? Sicuramente risponderete l’ottimo rapporto qualità-prezzo, la durevolezza (se si tratta di un prodotto fisico), le recensioni online e i pareri di amici, così come forum, articoli specializzati, video, post di blogger.
Siamo tutti consumatori ormai più o meno consapevoli, attenti e desiderosi di informazioni prima di spendere i nostri soldi. Spesso acquistare è una necessità ma in molti casi vuol dire comprare un pezzo di serenità, di conoscenza, o almeno illudersi di farlo, vuol dire regalarsi un’esperienza e in tanti casi, perché no, anche una prospettiva.
Eppure, in tutto quello che abbiamo detto, per un consumatore che è sempre più social consumer, una leva fondamentale sono le aziende stesse. Il come si pongono sul mercato ma anche come conversano con noi clienti, come gestiscono la loro reputazione, come si raccontano, ma soprattutto se si comportano in maniera responsabile dal punto di vista sociale, ambientale, etico o di organizzazione del lavoro.
Un recente rapporto di Ipsos, presentato durante l’evento organizzato da Autogrill per festeggiare i 10 anni dal suo Rapporto di Sostenibilità lo sottolinea: il 62% degli italiani è disposto a spendere fino al 10% in più per prodotti/servizi di aziende socialmente responsabili. E il 43% degli intervistati ammette che la Corporate Social Responsibility (CSR) influenza i suoi acquisti. Percentuale che cresce, addirittura fino al 64%, in chi sa cosa vuol dire – se lo diciamo all’italiana – Responsabilità sociale d’impresa (RSI).
Già, ma cosa intendiamo con essa e perché un’azienda dovrebbe prestare attenzione a come si comporta al di fuori del prodotto o servizio che propone?
Per definirla, intanto, prendiamo in prestito le parole del sito dedicato alla CSR di Union Camere. La CSR o RSI è entrata formalmente nell’agenda dell’Unione Europea durante il Consiglio Europeo di Lisbona nel marzo 2000 e da allora viene considerata uno degli strumenti strategici per realizzare una società più competitiva e socialmente coesa e per modernizzare e rafforzare il modello sociale europeo.
Nel libro verde della Commissione Europea del 2011, la RSI è definita come l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali e ambientali delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei rapporti con le parti interessate.
Parti interessate: stakeholder, che si identificano nei clienti, ma anche nei collaboratori, nei fornitori, nei partner, nelle comunità e istituzioni locali, nei confronti dei quali vengono portate avanti delle azioni concrete e misurabili. Scelte che hanno – o dovrebbero avere – come obiettivo quello di ottenere un profitto che sia giusto, equo e che non cozzi con i valori dei consumatori. Il tutto all’insegna della sostenibilità e per creare un vero e proprio sistema di relazioni che continui nel tempo.
Non ho usato il condizionale a caso: capite bene come un’azienda che dica di perseguire obiettivi di reponsabilità sociale, di volere migliorare l’ambiente, ne guadagni indubbiamente in ottica di brand reputation. Questo non basta però: la social responsibility parla appunto di responsabilità e, come lascia indovinare la sua etimologia, si propone di rispondere a dei bisogni e di farlo in maniera concreta.
Come? Sponsorizzando o meglio realizzando progetti sociali o culturali sia sul territorio che in aree svantaggiate, finanziando corsi di formazione, concedendo benefit ai propri dipendenti, promuovendo iniziative a difesa dell’ambiente e così via.
Per esempio Exprivia, azienda che si occupa di consulenza di processi nei servizi tecnologici e di information techonology, ha da anni attivo un progetto per aiutare gli orfani di Aids in Mozambico, Vodafone, premiata a giugno come Azienda Women Friendly, promuove politiche in favore delle donne per valorizzarne il talento e aiutarle nel tenere in piedi quel fragile equilibrio che da un lato del piatto vede la carriera (o il lavoro) e dall’altro la famiglia. Se d’altra parte, come dimostrano i risultati del sondaggio condotto da Donna Moderna, il 58% delle donne si sente ancora discriminato sul lavoro, capite bene come un’azienda come Vodafone che responsabilmente gestisce la maternità retribuendo la donna a stipendio pieno per 9 mesi e mezzo e offrendo un’assicurazione sanitaria che include il rimborso spese per l’acquisto del latte e contribuiti per gli asili stia facendo tanto per ridurre un gap che esiste da sempre.
Buone pratiche che in tanti altri Paesi – pensiamo al Nord Europa – sono diffuse da sempre e che da noi stanno coinvolgendo sempre più aziende.
Come venuto fuori al Salone della CSR, tenutosi a ottobre, i programmi di CSR hanno impatti positivi sulle vendite, aumentandone valore e redditività molto di più di quanto consente un approccio di breve periodo attento solo al contenimento dei costi.
La CSR crea inoltre un clima migliore all’interno dell’azienda tra i lavoratori stessi, ma non solo: attrae gli azionisti, ma anche i talenti che preferiscono spesso lavorare in un’azienda attenta a determinate esigenze. E questo succede anche quando, dal lato consumatori, si gioca la delicata partita del risparmio: se date un’occhiata a questo forum potete vedere come tanti, anche di fronte a casi low cost per eccellenza, si interroghino sullo scegliere o meno quel deteminato servizio in base a come vengono trattati i dipendenti.
E voi conoscete altri casi di CSR? Quanto hanno influenzato i vostri acquisti?