Ricordi quanti “mi piace” ha ricevuto il tuo ultimo post online? Ti sarà utile sapere cos’è la FOMO
Eccoci alla seconda puntata dedicata al tema delle dipendenze digitali. Dopo l’incursione tra nomofobia, phubbing e in generale attaccamento morboso allo smartphone, prendiamo in causa i migliori amici dei nostri cellulari: i social network.
Queste piattaforme evocano timori molto simili a quelli che si provavano dinanzi alla televisione e ai videogiochi nei decenni scorsi: alienazione, fuga dalla realtà, solitudine diffusa. Insomma, ci troveremmo di fronte a media che invece di social, potrebbero essere prontamente ribattezzati asocial media. C’è chi attaccandoli ci va giù pesante, come lo scrittore Andrew Keen: in Internet non è la risposta ricorda come il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, fosse dipinto dai compagni universitari alla stregua di un disadattato, «qualcuno con cui si poteva tentare di comunicare solo pensando di parlare a un computer». Mentre Secondo Yishan Wong, collega nei primi anni in Facebook, «Mark ha un livello di empatia pari a zero». Risulta pertanto legittimo chiedersi se il luogo progettato da una persona incapace di interagire fuori dal mondo di internet porterà gli utenti a socializzare sempre meno e a renderci simili al suo creatore, a Zuckerbergizzarci insomma. La risposta è: certo che potrebbe. Non fraintendetemi, non faccio l’apocalittico. Nemmeno però, il totalmente integrato. Il pericolo esiste, inutile nasconderlo.
Una prova evidente del lato oscuro dei social? L’emergere della FOMO. Termine sdoganato anche dall’Oxford English Dictionary, FOMO è l’acronimo di Fear Of Missing Out. Letteralmente “la paura di perdersi”. Sottende il pensiero costante che altri stiano facendo qualcosa di più interessante rispetto a noi. Di conseguenza, rischia di comunicarci che ci stiamo perdendo diverse opportunità importanti. La FOMO non nasce grazie ai social: quante volte negli anni passati ci è capitato di rosicare dopo che un amico incontrato in strada, in ufficio o al bar ci raccontava di un’occasione sociale eccezionale che ci eravamo persi qualche giorno prima? (Nota: questa frase potrebbe risultare incomprensibile a un lettore con meno di vent’anni). Eppure i nostri amici su Facebook, Twitter e Instagram sono diversi. Aumentano ogni giorno e da centinaia diventano facilmente migliaia, postano in continuazione, ci inondano di frammenti della loro vita, che sono spesso acuti, folli, straordinari o semplicemente divertenti. Non a caso i social media (Facebook in particolare) sono stati definiti l’anima della festa di Internet. Di fronte alle quotidiane feste straordinarie degli altri, qualcuno potrebbe vedersi come l’unico a non godere appieno della vita, a non agguantare le occasioni, a non cogliere gli attimi fuggenti della propria esistenza. Una condizione che corre in parallelo con l’ansia di non essere celebrati e riconosciuti per ciò che postiamo in rete: ricevere pochi mi piace, numeri esigui di condivisioni o retweet, non essere citati o taggati in fotografie e video, possono rivelarsi causa di FOMO.
Può essere definita come la malattia del web 2.0 e cresce rapidamente, prendendo di mira soprattutto i più giovani, che se non possono uscire la sera si consolano seguendo le gesta dei loro amici online, uscendone letteralmente consumati dal bisogno ossessivo di controllare ciò che fanno gli altri. Potrebbe sembrare un paradosso, ma invece di staccare da ciò che li ferisce si aggrappano alle bacheche online creando un circolo d’ansia viziosa, come falene attirate dalla luce degli aggiornamenti. Il primo a offrire una panoramica completa della malattia è stato lo scienziato sociale Andrew Przybylski. Sul suo sito arriva a ipotizzare che la FOMO sia «una delle forze motrici in grado di incentivare e guidare l’uso dei Social Media». Sempre secondo lo studioso esisterebbe un rapporto tra la considerazione che una persona ha della propria vita e la facilità che si ammali di FOMO: all’abbassarsi dell’una si alzerebbe la seconda, e viceversa.
Pensate di essere a rischio? Potete sottoporvi a un test attitudinale specifico, ideato dallo stesso Przybylski. Guardando oltreoceano in direzione degli Stati Uniti, la Fear Of Missing Out sta diventando un problema serio, al punto che sono nati gruppi e associazioni di aiuto. Ed è perlomeno curioso notare come riscuotano successo sugli stessi canali portatori della malattia, i social media. Come Twitter, dove troviamo l’account @FOMO, che porge una mano di 140 caratteri a chi ammette di soffrire del problema offrendo consigli, ricerche e dati utili.
Come evitare questa discesa nel malessere digitale? Innanzitutto, non prendendo le bacheche online troppo sul serio. I social network sono per loro stessa natura una rappresentazione, una messa in scena. Non una farsa come sostiene qualcuno, ma certamente creano una versione edulcorata ed enfatizzata del nostro vivere collettivo. Disponendo chiunque per la prima volta di palco e riflettori, sarà logico portare in scena i momenti migliori (o più precisamente: che si reputano essere i migliori agli occhi degli altri), dalle nostre vite. Cosicché i profili di professionisti e manager brulicheranno di successi, frasi motivazionali, partecipazioni a eventi. Mentre i più giovani celebreranno la loro coolness attraverso narrazioni che dimostrino quanto loro siano speciali, o almeno speciali quanto i loro amici. Mostrare il nostro lato migliore è in fondo una classica forma di difesa dal giudizio degli altri. Per i prossimi anni, fino a quando non avremo preso le misure con le nuove forme di comunicazione digitale, sarà normale giocare spesso dietro la linea di centrocampo.
Un ottimo suggerimento arriva poi da Will Welch. In un articolo del 2013, Do you suffer from FOMO? propone di impegnarsi in attività che, online e offline, diano un senso profondo alla nostra vita. Non semplicemente tenendoci occupati, ma trovando attività e progetti a lungo termine. Per i più fortunati potrebbe coincidere ad esempio con il proprio lavoro, altri potrebbero trovare motivazione nelle cause sociali, aderendo a movimenti o comunità, sentendosi parte di qualcosa di più grande. Si creano in tal modo anticorpi naturali che rimettono le bacheche digitali al loro posto: ai lati, non al centro dell’esistenza.
Insomma: i social non sono in grado di creare un vuoto dentro di noi, lo amplificano se questo già esiste. E questo è un pensiero confortante.