Quella pazza voglia di ripartire. Ma come?
Ci siamo finalmente lasciati alle spalle un annus horribilis come non se ne ricordavano da decenni e tutti abbiamo voglia di voltare pagina. Il virus che ha funestato il 2020 è ancora qui, ma la prospettiva dei vaccini sembra mostrare una luce in fondo al tunnel, anche se tutti sappiamo che ci vorrà molto più di qualche mese per tornare a qualcosa che assomigli vagamente alla perduta normalità.
C’è voglia di ripartire, anche se in fondo la maggior parte di noi non si è mai davvero fermata – nemmeno durante il lockdown della scorsa primavera – ma quella pazza voglia deve necessariamente fare i conti con la realtà: un macigno saldamente posato sui nostri entusiasmi e sulla parte più viva della nostra umanità: quella irrazionale, istintiva, ancestrale, che mette in secondo piano ogni calcolo e pretende una libertà che vada ben oltre gli aspetti formali e le vaghe promesse.
Cosa c’è nel garage della nostra anima?
Forse ciò che si è fermato in questi mesi è proprio quella parte di noi, parcheggiata in garage senza giustificati motivi da autocertificare, ma troppo importante per essere messa in un angolo. Farla ripartire è molto più che un doveroso proposito per questo 2021; è un esercizio che dobbiamo tutti applicarci a praticare, giorno dopo giorno, coltivando quegli svaghi e quelle piccole “follie” che in questi mesi ci sono stati negate e che ci tengono in vita molto più di quanto immaginiamo.
Quelle poderose sacche di ossigeno non sono conservate nei luoghi e nelle attività che ci sono state negate, ma nella nostra capacità di comprendere che non sarà un ritorno alla normalità a restituirci il sorriso e la speranza, ma la consapevolezza che il mondo è cambiato in un anno molto più di quanto non lo sia nell’ultimo mezzo secolo e che dovremo necessariamente allenare la nostra benedetta follia a guardare oltre e a trovare nuovi stimoli e nuove strade.
Come siamo arrivati sin qui?
Se guardiamo indietro e ci sforziamo di immaginare le vite dei nostri nonni, dei loro genitori e delle generazioni che li hanno preceduti, ci rendiamo facilmente conto che la normalità cui tutti noi siamo abituati non è che una breve parentesi durata solo qualche decennio e figlia di un periodo tragico, funestato da due guerre mondiali, da un’altra pandemia (la Spagnola del secolo scorso), da una crisi economica devastante (quella del 1929) e da numerose ulteriori catastrofi e calamità.
Il boom degli Anni 50 fu una sorta di resurrezione dell’umanità, un nuovo e devastante rinascimento dopo oltre 30 anni di buio, di sofferenza e di privazioni di ogni genere. A questa necessità di risurrezione si è sommato un progresso tecnologico inimmaginabile, innescato dalle rivoluzioni industriali e sostenuto dalla diffusione dell’informatica e dei suoi strumenti.
Nel giro di pochi decenni il mondo è passato dall’antica tradizione del fare contadino, caratterizzato da grande fatica fisica e da lunghe attese, a quello industriale e urbanizzato. Alla pazienza dei coltivatori di campagna si è sostituita la fretta perenne dei cittadini, la loro smania di fare, di produrre, di vivere appieno – spesso in modo sfrenato e sregolato – tutto ciò che il nuovo mondo poteva offrire.
Oltre i paradigmi del fare
Una frenesia che ha generato in pochi anni un fenomeno fino ad allora marginale: l’esigenza di svago e di forme di riposo attive, dinamiche, che presto sono diventate una fetta importante dell’economia. Cinema, teatri, centri sportivi, alberghi, villaggi turistici e molte altre realtà di intrattenimento hanno riempito il poco tempo libero di miliardi di persone in tutto il mondo, generando quella nuova normalità che oggi rimpiangiamo.
Chiusi in casa, in questi mesi, ci siamo sentiti prigionieri, condannati ad un’inattività che non siamo più capaci di gestire. Abbiamo così rimpiazzato i cinema con le piattaforme di streaming, ci siamo tuffati nei mondi virtuali delle console di gaming, consumati in cucina, emulando gli chef della tv, ma in tutti i casi a mancarci di più è stata l’azione, la possibilità di fare cose.
Una possibilità che oggi è messa a dura prova, ma che deve necessariamente spingerci a ripensare noi stessi e la nostra civiltà, se vorremo trovare una dimensione finalmente sostenibile, che ci faccia “uscire dal tunnel del divertimento” e ci aiuti a trovare dentro di noi quelle spinte e quelle soddisfazioni. Non perché ci saranno negate per sempre, ma perché non dobbiamo permetterci di essere schiavi dei nostri bisogni e di vincolare la nostra felicità alla possibilità di fare determinate cose.
Lo ritroveremo quel fare, ci volessero ancora mesi o addirittura anni, ma c’è un passaggio fondamentale che dobbiamo compiere, nel frattempo: spogliarci di tutte le sovrastrutture e riscoprire la nostra capacità di bastare a noi stessi – e ai nostri cari – e di renderci felici anche senza la “droga” del fare.
Essere (felici, pieni, realizzati) è molto più importante e non possiamo permettere che questo sia assoggettato o limitato dalla possibilità di fare determinate cose, che in fondo non sono altro che lampi di evasione da una quotidianità che non ci soddisfa e che ci opprime. È proprio da questa constatazione che dobbiamo ripartire, se ripartire è ciò che davvero vogliamo, con l’obiettivo di avviare un percorso che ci porterà a vivere un’esistenza dalla quale non vorremo o non avremo più bisogno di evadere, fatto salvo il sacrosanto diritto di tutti allo svago.