Quanto inquinano i bitcoin?
Quanto inquinano i bitcoin? Tanto.
Se fosse una nazione, il processo di verifica delle transazioni e di generazione di nuovi token, noto come “mining”, si piazzerebbe alla trentesima posizione della classifica sul consumo elettrico annuo. Poco sotto la Norvegia e poco al di sopra di un gigante come l’Argentina. Per questo il recente investimento da 1,5 miliardi di dollari in bitcoin da parte di Tesla, l’azienda delle auto elettriche fondata e guidata dal vulcanico imprenditore di origine sudafricana naturalizzato canadese e statunitense Elon Musk, lascia spiazzati. Un gruppo che ha come stella polare la volontà di “accelerare la transizione del pianeta verso l’energia sostenibile” mette tutti quei soldi su una criptovaluta così energivora e insidiosa sotto il profilo ambientale? Qualcosa non torna.
Che Musk sia un grande amante delle monete digitali e di una finanza per così dire distribuita (basti vedere il recente caso GameStop) non è un segreto. Sul tema, come su molti altri, è da tempo un formidabile influencer finanziario in grado di condizionare – con grandi preoccupazioni delle agenzie regolatorie, specie della Sec statunitense – le oscillazioni di questi volatilissimi asset. Come ha fatto di recente semplicemente aggiungendo l’hashtag “#bitcoin” alla sua biografia su Twitter. Ma il maxi-investimento, e l’annuncio che in un futuro prossimo Tesla accetterà anche bitcoin come pagamento per le sue vetture e i suoi servizi, hanno spinto al rialzo le quotazioni della valuta digitale ideata dal misterioso Satoshi Nakamoto. E quando le quotazioni salgono, sale anche l’interesse dei “miner”, utenti che controllano intere factory di pc e server, ma anche singole macchine, impegnati nella validazione degli scambi di criptovaluta in cambio dei quali ricevono porzioni di bitcoin (e si arricchiscono). Di conseguenza il consumo di quelle macchine cresce, ha bisogno di più energia e compromette non di poco la mission di Tesla.
Il Bitcoin è una criptovaluta fondata su un sistema ormai molto diffuso di certificazione distribuita, noto come blockchain, “catena di blocchi”. Un meccanismo che elimina la necessità di coinvolgere un ente certificatore terzo che sovrintenda e certifichi le diverse transazioni in molti ambiti diversi (transazioni, certificati, contratti, garanzie e appunto in questo caso passaggi di criptovaluta) e affidando quel controllo condiviso a una rete capillare di computer che d’altronde sarebbe troppo complesso e costoso tentare di controllare per intero. Da qui, per i suoi sostenitori, deriva la certezza della massima sicurezza contro frodi e sofisticazioni: scalare il sistema non conviene. Il punto è che per condurre questo incessante lavoro di certificazione condivisa e memorizzata in un registro distribuito un esercito di pc e server lavora costantemente, in competizione gli uni con gli altri.
Ed è qui che l’aspetto ambientale pesa più che in altri passaggi: le macchine conducono una specie di gara computazionale con cui devono risolvere determinati algoritmi di hash, insomma calcoli matematici molto complicati. Se ci riescono non solo certificano le transazioni ma ricevono in cambio bitcoin. Più ci provano, più le probabilità di soluzione dei calcoli crescono, più energia viene consumata sia in termini di potenza di calcolo che di alimentazione dei pc, sulle cui fonti energetiche fra l’altro nulla possiamo sapere (se non tenere presente che gran parte di questi nodi si trova in Cina, dove si fa ancora grande uso delle centrali a carbone: il paese brucia circa la metà del carbone utilizzato a livello globale ogni anno).
Per questo la scelta di Tesla, che nel frattempo, attraverso la no-profit X-Prize, ha perfino lanciato un contest da 100 milioni di dollari interamente finanziati da Elon Musk dedicato a chi riuscirà a sottoporre idee per la cattura di CO2 dall’atmosfera e dagli oceani, lascia perplessi. Investire in bitcoin significa automaticamente spingerne le vertiginose quotazioni, arrivate a superare i 45mila dollari quando solo alla fine di gennaio si muovevano intorno ai 30mila per un solo bitcoin, e portandosi dietro anche altre criptovalute come Ethereum. Il Cambridge Centre for Alternative Finance traccia e aggiorna in tempo reale il consumo energetico della criptovaluta e dalle analisi è ben chiaro come dallo scorso ottobre la curva collegata alla creazione di bitcoin abbia ripreso a crescere, seguendo l’aumento delle quotazioni e passando da un consumo annuo di 52 Terawatt appunto a oltre 123 nel momento in cui scriviamo.
“Finché il meccanismo non verrà modificato, anche quella situazione non cambierà in futuro – spiega a The Verge Michel Rauchs, ricercatore del Cambridge Centre for Alternative Finance – più alto diventa il prezzo del Bitcoin, più è redditizio minare. Quindi, più miner vorranno partecipare a quella competizione e più elettricità complessiva verrà utilizzata, indipendentemente dall’efficienza energetica dei dispositivi utilizzati”. Fine del discorso. Esistono altri protocolli per compiere questi processi in modo un po’ più virtuoso, impiegando meno energia, come quello noto come “proof of stake” che favorisce i miner che controllano una maggiore quantità di token e che nel tempo è stato implementato da altre criptovalute come Peercoin, Nxt, Cardano, BlackCoin e bitShares. Ma il punto di fondo è la responsabilità delle aziende verso l’ambiente, una responsabilità che dovrebbe muoversi a tutto tondo per abbattere anche i consumi “indiretti”, quelli cioè legati al modo in cui i loro prodotti e servizi saranno usati, alla catena delle forniture e agli investimenti per differenziare gli asset in proprio possesso.