Proteggersi dagli asteroidi: Liciacube, la sonda italiana per la difesa del Pianeta
I grandi eventi della Storia hanno bisogno di testimoni. In caso manchino, occorre la memoria si affidi alle fortunate occasioni dell’archeologia o della geologia.
Sebbene ne sia stato scritto un nuovo capitolo da pochi giorni – ci torneremo a breve – la storia raccontata nelle prossime righe è iniziata 65 milioni di anni fa, col grande evento che mise fine a quattro quinti delle forme di vita sulla Terra, lasciando la traccia di un gigantesco cratere nel Golfo del Messico e di una sottile linea di iridio depositata nelle rocce. Con loro, la consapevolezza che la minaccia alla sopravvivenza del genere umano possa arrivare dallo spazio.
A fare da storiografo al grande evento spaziale del 26 settembre 2022 c’era, invece, una sonda italiana: LiciaCube, costruita a Torino da Argotec per l’Agenzia spaziale italiana, ora vaga per lo spazio e continua a inviarci i suoi dispacci, foto del momento che potrebbe essere stato una pietra miliare nella storia del genere umano: quando abbiamo iniziato (a imparare) a difenderci dagli asteroidi per evitare di fare la fine dei dinosauri.
LiciaCube è la prima missione tutta italiana nello spazio profondo. Il suo compito era registrare l’impatto di Dart, una sonda della Nasa, contro l’asteroide Dimorphos, a una dozzina di milioni di chilometri dalla Terra. Per la prima volta l’umanità ha provato a deviare l’orbita di un corpo celeste attraverso l’uso di un “impattatore cinetico”, un oggetto lanciato apposta.
In Italia erano le prime ore del mattino del 27 settembre: tutto il mondo ha seguito, in diretta e con lo staff del Mission Control Center al Laboratorio di Fisica applicata della Johns Hopkins University, le immagini che Dart inviava, mentre Dimorphos, l’obiettivo, diventava sempre più grande fino a riempire lo schermo. A un certo punto, il buio: Dart si è disintegrata nella sua missione kamikaze, schiantandosi contro Dimorphos a una velocità di circa 23mila chilometri orari. A una cinquantina di chilometri, però, c’era LiciaCube, appostata a distanza di sicurezza per riprendere tutto e spedire al quartier generale la conferma – missione compiuta – e i dati, che saranno utili per “scalare” l’esperimento e fare in modo possa essere replicato nel caso un corpo celeste ben più grosso minacci con la sua orbita di incrociare quella terrestre. Un rischio, bene chiarirlo, che Dimorphos non presenta.
Proprio al successo della missione e al patrimonio di informazioni accumulato da Liciacube è stata dedicata la giornata di giovedì 27 ottobre, quando, a un mese esatto dall’impatto, l’Agenzia spaziale italiana ha presentato un approfondimento sulle prime immagini arrivate dallo spazio, per poi descrivere le prospettive dello studio e del monitoraggio di quegli asteroidi che potranno passare in prossimità della Terra.
Com’è andato “l’incidente spaziale”
Per capire meglio quanto prezioso potrebbe essere (stato) l’operato di Liciacube, conviene però tornare un’ultima volta indietro nel tempo. Perché in quella notte di fine settembre, oltre alla Nasa anche l’Italia aveva il suo Mission Control Center: gli ingegneri alla sede di Argotec hanno seguito tutte le manovre della loro creatura da 11 milioni di chilometri di distanza. Grande come una scatola di stivali, ma intelligente, LiciaCube è equipaggiata con un cervello, i cui algoritmi le permettono di navigare in autonomia, e due fotocamere chiamate come i protagonisti di Star Wars: “Luke” (che sta per LiciaCube Unit Key Explorer) e “Leia” (LiciaCube Explorer Imaging for Asteroid). Leia è una camera pancromatica a campo stretto, capace di acquisire immagini da grande distanza con un alto livello di definizione spaziale. Luke è una Rgb a campo largo, per un’analisi multicolore dell’ambiente asteroidale. Oltre a confermare l’impatto spaziale, Leia e Luke hanno analizzato la formazione della nube di detriti sollevata dalla collisione, la cosiddetta plume, in particolare per caratterizzarne la struttura e lo sviluppo, rilevare dimensioni e morfologia del cratere, e osservare l’emisfero non colpito di Dimorphos.
Il 12 settembre, un paio di settimane prima della collisione cosmica, LiciaCube si era staccata dalla sonda madre. E da quando ha “aperto gli occhi” si è guardata intorno per orientarsi e puntare nella giusta direzione. Prima ha seguito Dart. Poi, avvicinandosi, ha riconosciuto l’obiettivo della missione, un sistema costituito da due asteroidi: Didymos, del diametro di 750 metri circa, e soprattutto il target finale, Dimorphos, grande su per giù come la piramide di Cheope a Giza, che orbita attorno al fratello maggiore come ne fosse una luna.
Poche ore dopo l’impatto, LiciaCube ha trasmesso a Torino le sue immagini. Aprendo “l’allegato” del dispaccio, gli ingegneri di Argotec hanno avuto la conferma, in un solo momento, del successo di due missioni: Dart aveva fatto centro, in pieno. La plume nelle immagini della sonda italiana non lasciava spazio a dubbi. I dinosauri sono stati vendicati.
Qualche giorno dopo è arrivata l’ulteriore conferma, dai telescopi terrestri: Dart ha spostato Dimorphos e ha accorciato la sua orbita di 72 minuti. Detto altrimenti, per la prima volta nella sua storia il genere umano è stato capace di lanciare un oggetto artificiale per deviare un asteroide. E poi di lanciare lei, la prima avventura made in Italy oltre l’orbita terrestre, che ha aperto la strada a una tecnologia e a una piccola realtà che sogna in grande e lontano. Almeno quanto la Luna e forse fino a Marte.
Piccola grande eccellenza italiana
Argotec, infatti, è un’azienda giovane, fondata nel 2008 da David Avino, ingegnere di Foligno con un passato nella Folgore e un seguito all’Agenzia spaziale europea (settore human spaceflight con i primi voli degli astronauti continentali sulle Soyuz russe). Avino è rientrato in Italia, a Torino, proprio per fondare la sua impresa, con la quale, in pochi anni, è già stato in grado di portare il caffè espresso sulla Stazione spaziale internazionale, addestra astronauti e sperimenta nuove tecnologie. Oggi Argotec conta appena una settantina di dipendenti, di un’età media attorno ai 30 anni, ma punta in alto. Letteralmente.
Lo testimonia ancora una volta LiciaCube: mentre, ormai sola, vaga per lo spazio buio (ha sorvolato l’asteroide a 6,6 chilometri al secondo, senza freni), qui, sulla Terra, dà indicazioni per moltiplicare gli smallsat, i satelliti di piccole dimensioni, a lei somiglianti. La piattaforma Hawk è la “base” sulla quale sono stati montati i suoi strumenti, le camere, il sistema di navigazione e il computer di bordo dotato di intelligenza artificiale, uno standard pronto per effettuare anche altri tipi di missioni. La Nasa stessa l’ha già selezionata, ancora come testimone oculare, per la Luna. A bordo di Artemis I, che dovrebbe partire a novembre, ci saranno una decina di cubesat, e tra loro Argomoon, che subito dopo il distacco dal sistema di lancio statunitense si volterà per riconoscere gli elementi del vettore e verificare, ancora una volta come un fotoreporter, che tutto sia andato come previsto. Dopo aver fatto da testimone, si avventurerà solitario su un’orbita ellittica, che lo porterà ad avvicinarsi al nostro satellite naturale per altri reportage.
È proprio attorno alla Luna che Argotec vuole portare i piccoli satelliti Hawk, per sfruttare una delle nuove opportunità offerte dalla new space economy sulla frontiera della nuova esplorazione extra-atmosferica. Ai robot e agli astronauti che prenderanno parte alle prossime missioni lunari, infatti, servirà potersi orientare, occorrerà “navigare” e connettersi a quello che non sarebbe forzato chiamare un “internet extra-terrestre”.
L’idea è di comporre una costellazione formata da piccoli satelliti del peso di pochi chili, come Liciacube e Argomoon: saranno economici, leggeri (se ne possono lanciare a decine tutti insieme con una spesa modesta, anche “salendo a bordo” di altre missioni, condividendo il lancio) e già testati per lo spazio profondo.
Poi, una volta capito che tutto funziona, sarà possibile costruire un’infrastruttura simile per connettere, un giorno, Marte. E fare in modo che anche la prima volta dell’umanità sul Pianeta Rosso abbia un testimone.