Prima i compiti a casa, poi la lezione in aula: è il flip teaching. Servirà a migliorare la scuola?
«Io non li capisco più, un tempo era diverso. Questi studenti, invece, non so proprio da che parte prenderli». La professoressa Imma sbotta entrando nella sala docenti, esausta da una classe inerte, disattenta, che non reagisce.
Ma non è solo una docente a non sapere più come insegnare, interessare e coinvolgere i ragazzi: c’è anche quella mamma di due adolescenti, quell’allenatore di calcio, quel direttore d’azienda che sentono di non aver più la giusta tecnica di insegnamento, i giusti strumenti o addirittura il linguaggio idoneo.
Il mondo è cambiato troppo velocemente in questi anni e la tecnologia ha solcato uno spartiacque profondo tra vecchie e nuove generazioni. Vediamo i giovani sempre connessi, a chattare o a giocare, li osserviamo guardare lo schermo dello smartphone cento volte al minuto e cercare su Google anche le nozioni più comuni. E in fondo pensiamo a quanto sarà difficile per noi vivere in questo mondo tra pochi anni, a quanto invece sarà semplice per loro, sempre alla ricerca di una scorciatoia o di una fuga dai nostri noiosi insegnamenti. Perché il digitale propone ai giovani un mondo fatto di interazione continua, di iperconnessione, di flussi di informazione immediata, di pezzettini di bit che irrompono senza chiedere permesso e portano distrazione. È per questo che la professoressa Imma non si sente più a suo agio, lei che ancora usa il telefonino solo per telefonare.
Al di là delle competenze tecnologiche che ciascuno di noi può avere o meno, che comunque si possono sempre costruire, dobbiamo però discutere sul metodo ideale per trasferire conoscenza ai giovani e iniziare a ripensare seriamente il ruolo dell’insegnante. Di fronte a questo bivio si stanno già sperimentando, anche in Italia, diverse strade. Tre in particolare:
1. L’utilizzo di nuovi strumenti didattici
2. Il capovolgimento delle meccaniche di apprendimento
3. Il modello di apprendimento basato su nuove competenze
Il primo fronte riguarda essenzialmente l’inserimento della tecnologia tra il materiale didattico a disposizione dello studente. Fornire ai ragazzi un materiale di studio e di apprendimento fruibile attraverso un tablet o un Pc permette loro di navigare la nozione ricevuta nello stesso modo e con gli stessi formati con cui interagisce nativamente nel privato. Sappiamo, però, che non basta mandare gli studenti al laboratorio di informatica o dare loro un tablet per assolvere al ruolo di formatori. Per questo sembrano invece molto più efficaci gli esperimenti di chi utilizza il device non solo come erogatore di contenuti, ma anche come mezzo di relazione e dialogo tra gli studenti, in una logica collaborativa e socializzante.
Il tablet, quindi, diventa un luogo in cui il processo di apprendimento segue le stesse logiche reticolari e comunitarie del web. E, aspetto altrettanto interessante, è quando il digitale diviene il terreno di relazione con il docente: immaginate un questionario interattivo non solo e non tanto pensato per il giudizio, ma per la verifica immediata dello stato di comprensione della lezione. L’insegnante che riceve un feedback dai ragazzi, può, il giorno successivo, sviluppare meglio la lezione e procedere in una direzione davvero interattiva.
Una seconda area di sviluppo dei nuovi metodi didattici va sotto il nome di flip teaching: la lezione canonica condotta in aula viene sovvertita e il docente impiega il suo tempo a moderare la discussione tra i ragazzi, dopo che gli stessi hanno visualizzato il contenuto a casa, magari su YouTube. Non ha infatti molto senso spendere il tempo insieme per fruire passivamente e in modo individuale una lezione: tanto meglio farlo dalla propria camera o in biblioteca e dedicare il tempo in classe per il vero apprendimento. Insomma, i compiti precedono la lezione.
Infine una terza strada, la più d’avanguardia. La considerazione di base è questa: una volta che dotiamo la classe di tablet permettendo loro di copiare, poiché il processo creativo e di apprendimento è molto simile a ciò che succede su Wikipedia, quale ruolo è rimasto al docente? Se un professore non ha più nessuna nozione da comunicare, non ha più nulla da insegnare? No, il docente diventa piuttosto il vero agente dell’apprendimento, perché fornisce gli schemi interpretativi e di consapevolezza allo studente. Insegna loro come si effettua una ricerca, come se ne ricostruisce il senso, come ci si forma un’opinione e come si fanno propri una storia e un metodo.
Secondo questa prospettiva, suggerisco due approfondimenti che per una volta descrivono l’Italia come un modello da seguire per altri Paesi. La prima arriva dall’esperienza della piattaforma imparadigitale.it che propone il device tecnologico come strumento per una rivisitazione complessiva di metodo didattico, ruolo del docente, contenuti e aule stesse. Come spiega l’insegnante Dianora Bardi: «È chiaro che se noi pensiamo di andare in classe e fare una lezione frontale dove io spiego e il ragazzo prende soltanto gli appunti sbagliamo completamente, perché la tecnologia diventa uno strumento di distrazione, perché il ragazzo si annoia. Il punto focale, invece, è rendere protagonista il ragazzo, cioè farlo lavorare e diventare protagonista del suo percorso di apprendimento». Secondo questo approccio, quindi, la tecnologia abilita una classe laboratoriale, collaborativa, co-creativa e consapevole del proprio processo di apprendimento e di acquisizione delle competenze.
Il secondo caso sperimentale e degno di nota è Programma il Futuro, un progetto del Miur (il Ministero dell’Istruzione) che per primo in Europa ha adottato l’iniziativa americana code.org. Una scelta il cui presupposto è semplice: agli americani è bastato proiettare domanda e offerta di lavoro da qui ai prossimi 10-20 anni, per capire di essere di fronte a un forte deficit sul fronte dell’information technology. Così come si iniziò a insegnare la lingua inglese ai bambini delle scuole elementari, allo stesso modo oggi si ritiene cruciale dare il via all’insegnamento della programmazione. Anche senza computer e connessione, perché ciò che più conta è l’apprendimento e la consapevolezza dell’approccio computazionale e non l’imparare a usare l’ultimo linguaggio di programmazione, destinato a essere superato nel momento stesso in cui lo si impara.