Perché la mindfulness è utile se applicata alla cultura digitale
Parole che un tempo erano solo appannaggio di sessioni di meditazione e di Buddhismo Zen, oggi si possono trovare all’interno dei progetti di formazione di molte aziende, specialmente quelle legate al digitale e all’Information Technology.
La consapevolezza di prestare attenzione al momento presente, intenzionalmente e in modo non giudicante – definizione più o meno ufficiale della mindfulness – permette di raggiungere un’accettazione di sé e della propria esperienza che comprende sensazioni, emozioni, azioni e relazioni, con il fine ultimo della riduzione della sofferenza interiore e dello stress.
Oggi questa può rappresentare per il mondo delle aziende una preziosa skill: in un’era dove il multitasking non solo regna incontrastato, ma che è anche sinonimo di distrazione, la consapevolezza diventa un concetto mainstream. A maggior ragione in quelle aziende dove l’utilizzo massiccio della tecnologia porta spesso alcuni dipendenti all’“intossicazione” digitale e alla dipendenza dai device, il concetto di mindfulness diventa centrale.
Ma questo in realtà non dovrebbe sorprenderci più di tanto. In effetti le pratiche contemplative e quelle esoteriche di meditazione furono alla base dell’impianto teorico della cultura digitale, alla sua nascita, alla fine degli anni ’70, nella Silicon Valley. Personaggi come Stewart Brand (autore di The Whole Earth Catalog e della celebre frase “Stay hungry, stay foolish” citata da Steve Jobs), e come Kevin Kelly (fondatore di Wired), basarono le teorie della cybercultura su alcuni mantra spirituali. Lo stesso Steve Jobs agli inizi della sua carriera fu fortemente influenzato dal Buddhismo Zen. Negli anni ’90 poi lo sviluppo del business prese il sopravvento e le tematiche di ricerca interiore divennero un folkloristico elemento collaterale, buono per reduci hippy e per derive new age.
Da qualche anno però l’argomento è tornato centrale e di estremo interesse per le grandi digital company. Per risolvere un problema, più che altro, ma che oggi gradualmente si sta trasformando in nuova opportunità.
Da una parte l’impossibilità di integrare vita e lavoro e lo stress derivante da tutto ciò, hanno rischiato di danneggiare la produttività, le prestazioni e le relazioni interpersonali di chi lavorava nella Silicon Valley. Dall’altra i seminari di mindfulness all’interno dei reparti HR delle aziende viene utilizzato come strumento per crescere in scenari altamente competitivi oltre al networking: quindi migliorare sé stessi per migliorare la produttività.
Perciò molti direttori delle risorse umane hanno invocato la necessità di un deciso ribilanciamento, quello che il futurologo John Naisbitt già nel 1999 chiamava nel suo saggio “High Tech – High Touch”. Scriveva Naisbitt “Per ogni tecnologia introdotta nella società, ci deve essere il contrappeso di una spinta umana che ristabilisca l’equilibrio – cioè un high touch – altrimenti la tecnologia viene respinta. Più c’è high tech, più occorre high touch”. Continua Naisbitt “La crescita accelerata della tecnologia ha prodotto una spinta più forte che mai nella ricerca del significato, un desiderio di comunità, una sete di spiritualità, e un bisogno veramente disperato di capire”.
Anche i social network possono essere utili alla causa. In fondo LinkedIn o Facebook sono strumenti che aiutano le persone ad evolversi: trovare un lavoro migliore, diventare se stessi, conoscere persone interessanti. Dopo che ci siamo scambiati la musica, le foto e le nostre passioni, il prossimo passo forse sarà la condivisione della saggezza, dello star bene con noi stessi e con gli altri, fino a giungere all’autoconsapevolezza, cioè la vetta della piramide di Maslow.