Innovare non è più un lusso per le aziende. È una necessità
Oggi i media bombardano le imprese con messaggi che parlano di innovazioni tecnologiche. L’Internet of Things, l’iCloud, i Big Data, il 3D Printing, l’uberization, la disruption, la manifattura e l’Industria 4.0. E di fronte a questa tensione da conoscenza tendono fisiologicamente a comportarsi in modi molto comuni:
– una parte insegue le innovazioni e investe del denaro per farle proprie;
– una, quella più piccola, non le insegue perché le cerca da sempre tentando di anticiparle;
– un’altra, la parte maggiore, le ignora o le considera come effetti passeggeri che non lasceranno il segno o non influenzeranno affatto la propria attività.
Come in ogni momento di cambiamento, anche lieve, l’azienda intelligente cerca però di comprenderle, metabolizzarle e, se può o se deve, farle proprie.
QUALE INNOVAZIONE
Di fronte a un periodo così fertile di innovazioni continue, che non era previsto e che viene classificato come la quarta rivoluzione industriale, le aziende devono quindi dotarsi di figure professionali che fino ad oggi non esistevano.
Chi sono o chi possono essere?
Il CIO – Chief Innovation Officer sembra una di queste, ma è sempre esistito per le imprese che già avevano l’innovazione o la tecnologia nella loro filiera produttiva o nel loro core business, come ad esempio quelle di questi settori:
– telecomunicazioni;
– medicina;
– biologia;
– chimica;
Oggi invece l’innovazione è un ingrediente democratico, che amalgama ogni tipologia di business e, compatibilmente con le ristrette possibilità di fare investimenti, può avere sull’impresa tre conseguenze:
– aprire nuovi spazi di mercato;
– portare alla Sindrome di Uber, ovvero essere sorpresi da competitor di settori diversi dal proprio;
– distruggere mercati
COSA FA
La figura che si dovrebbe occupare di tutto questo è l’innovation scout.
E cosa dovrebbe fare esattamente?
– Ricercare le novità
Prima di aiutare a portare l’innovazione in azienda, dovrebbe monitorare costantemente cosa accade nel mondo, individuare le novità tecniche e tecnologiche, di prodotto e di processo.
– Avere una mentalità plastica
Dovrebbe lasciare “al laboratorio” la mentalità fisica/matematica/ingegneristica per fare da collante o traduttore degli aspetti innovativi con quelli aziendali con un approccio plastico: capire cosa l’azienda possa prendere da ciò che accade fuori.
– Tradurre per chi decide
L’innovation scout, una volta intercettati i segnali deboli dall’esterno, dovrebbe elaborarli sfruttando team interni, a questo punto quelli davvero con mentalità tecnologiche e scientifiche, e calarli in ipotetiche azioni pratiche da sottoporre ai vertici aziendali.
– Simulare un piano d’azione
Con i vertici aziendali dovrebbe elaborare un piano d’azione simulato, creato sulla base di linee guida comuni, che generalmente valgono per tutte le aziende, chiedendosi:
– tra tutte le innovazioni, quali siano davvero un’opportunità e quali servano davvero all’impresa;
– come si possano utilizzare e quali siano gli usi davvero praticabili?
– quanto costino in termini di investimenti?
– in quanto tempo arrivino i risultati.
CARATTERISTICHE
È evidente che sul mercato l’innovation scout è una figura che non esista come, fino a pochissimi anni fa, non esisteva quella dell’export manager, oggi professione diffusa e sempre più centrale per un’economia sempre proiettata sui mercati esteri.
E oggi, sulla base di tutti questi elementi, dovrebbe avere caratteristiche come queste:
– avere già avuto esperienze progettuali, per immaginare da subito se un percorso innovativo sia praticabile da parte dell’aziende, facendo loro risparmiare tempo e denaro;
– avere sensibilità “di mercato” per capire immediatamente se il progetto praticabile porti poi a conseguenze positive;
– avere la capacità di convincimento ed espositive per proporre alla propria azienda la strada dell’innovazione come fosse un proprio cliente e superare o abbattere il muro dell’”abbiamo sempre fatto così”, oppure proporla ad altri investitori e partner;
– avere la lucidità del ragioniere, per capire se è meglio cercare gli ingredienti innovativi fuori, oppure sono nascosti dentro l’azienda e basta solo tirarli fuori.
Oggi la distanza tra noi e le innovazioni è molto varia, perché possono venire dalla propria azienda, da omologhi o competitor, da università o centri di ricerca, oppure dall’estero. Eppure la distanza più importante da comprendere è quella che c’è tra l’investimento per ottenerle (misurabile) e la loro resa in termini economici e temporali.
ERRORI
Di fronte a questa prospettiva, l’azienda dovrebbe poi evitare alcuni errori molto comuni, come:
– innovare a tutti i costi, anche dove e quando non serve;
– lasciare l’innovazione, come un giocattolo, in mano al Ceo ed alle sue conferenze pubbliche;
– impedire il dialogo tra il proprio laboratorio innovativo (sempre più imprese ce l’hanno) e il resto della struttura;
– non agganciare l’innovazione a tutta l’azienda;
– rinunciare all’ascolto delle proprie professionalità interne migliori (spesso i manager dimenticati creano innovazioni nella aziende o nelle start up in cui scappano);
– tenere gli scout dell’innovazione chiusi in azienda, mentre imparano soprattutto muovendosi tra il dentro e fuori.
Tra tutte queste possibilità di scelta, alcune restano poi imprescindibili. Perché deve restare chiaro il motivo per cui si innova. Spesso ci si illude di cambiare il mondo, dimenticando che fatturato (nuovi mercati e nuovi prodotti), utili (efficienza) ed equilibrio (continuità) sono gli unici elementi che tengono in piedi un’impresa.
E il grande vantaggio qual è?
Che oggi gli scout dell’innovazione non si possono ancora comprare, ma si possono solo formare.