Nomadi digitali, cosa manca all’Italia per essere la meta perfetta
Si parla sempre di Thailandia e destinazioni nel Sudest asiatico, mete esotiche dove lavorare rilassandosi, paesi attraenti per quanto riguarda l’innovazione o dove non fai mai troppo freddo come le Canarie, spagnole politicamente ma africane dal punto di vista geografico. E l’Italia? Il secondo rapporto sul nomadismo digitale, da poco presentato alla Borsa internazionale del turismo di Milano e realizzato dall’Associazione italiana nomadi digitali, mette nero su bianco punti di forza e lacune del nostro paese sotto questo punto di vista.
L’obiettivo del rapporto è infatti comprendere quali siano le esigenze, le aspettative, le criticità, i servizi richiesti dai “remote worker” e quindi cercare di capire quali siano gli aspetti decisivi e strategici da considerare per trasformare l’Italia in una destinazione attraente e ospitale per lavoratori da remoto e nomadi digitali provenienti da tutto il mondo. I risultati sono basati sui dati raccolti da un sondaggio internazionale realizzato lo scorso marzo a cui hanno risposto oltre 2.200 remote worker e nomadi digitali di diverse nazionalità.
Chi sono i nomadi digitali
Dall’indagine emerge anzitutto che il 54% degli intervistati intende compiere un’esperienza di “remote working” nel prossimo futuro. Dunque, sebenne il 46% ha già vissuto qualcosa di simile, il margine di manovra rimane ancora piuttosto ampio. Fra i primi, a sorpresa, ci sono dipendenti (52%) o collaboratori di aziende con un elevato livello di istruzione. Fra i nomadi digitali, infatti, il 42% ha una laurea e il 31% un master o un dottorato. Dove lavorano? In settori ad alto valore aggiunto, con competenze che spaziano dal mondo della comunicazione, all’insegnamento fino a, senza troppe sorprese visto che i programmatori sono stati fra i primi a inaugurare il fenomeno ormai molti anni fa, quello dell’information technology.
Cosa pensano dell’Italia
Ai loro occhi l’Italia è senz’altro una destinazione attraente. Il 43% sceglierebbe per esempio il Sud o le isole, il 14% il centro e solo il 10% il Nord. Sole, mare e bel tempo sembrano dunque parametri irrinunciabili per il “remote worker” medio. Il 93% degli intervistati ha risposto di essere interessato a vivere la propria esperienza da nomade digitale soggiornando per periodi di tempo variabili in piccoli comuni e borghi dei territori marginali e aree interne del nostro paese, considerati luoghi dove la qualità della vita è migliore, specialmente rispetto ai grandi centri urbani. Non si viene insomma per lavorare a Milano o a Roma ma in qualche paesino siciliano, sulla costa pugliese o, per esempio, nella Maremma toscana. Il 42% è interessato a soggiornare in Italia per periodi che variano da uno a tre mesi, il 25% da tre a sei mesi, mentre il 20% sarebbe disposto a fermarsi anche più a lungo. La stagionalità lunga sembra chiara: in Italia il tempo cambia in autunno, non siamo una meta equatoriale, e dunque non sorprende che il 42% intenderebbe trattenersi da uno a tre mesi.
Dove vorrebbero abitare e cosa vorrebbero fare i nomadi digitali
Le strutture abitative preferite da remote worker e nomadi digitali sono in schiacciante maggioranza (73%) gli appartamenti e le case in affitto, seguite dai bed & breakfast. Fra l’altro, è in crescita l’interesse verso le strutture di co-living. In termini di attività a trainare l’interesse sono gli eventi culturali e quelli enogastronomici (ne è convinto il 55% degli intervistati) e le attività a contatto con la natura (51%) seguite dalla possibilità di vivere esperienze autentiche e caratteristiche di quel territorio (40%). Poi è anche importante socializzare con la comunità locale e con altri professionisti “expat” come loro (37%) e spendere tempo in attività legate al benessere personale (36%).
I parametri che influenzano la scelta
I quattro aspetti irrinunciabili per i remote worker sono la qualità della connessione a Internet, il costo della vita adeguatp alle proprie esigenze, le già citate attività culturali (quindi un’offerta intrigante) e la possibilità di sperimentare le tradizioni locali. Dunque connettività, potere d’acquisto, cultura e rapporto col territorio e con le persone che lo abitano: questi i fattori su cui le amministrazioni, a tutti i livelli, dovrebbero investire. Il 46% dei remote worker e nomadi digitali stranieri che hanno già fatto un’esperienza di nomadismo digitale nel nostro paese, tutto sommato, ne dà una valutazione molto positiva. Chi invece non ha mai fatto questo tipo di esperienza ne dà una valutazione inferiore, segno che c’è da lavorare anche sotto l’aspetto di una corretta ed efficace promozione. Il voto medio finale è comunque un 6.9: si può dare di più.
“Ci troviamo di fronte alla straordinaria opportunità per i nostri territori di attrarre un ‘nuovo tipo di persona’, libera di vivere e lavorare da remoto ovunque nel mondo, più consapevole e attenta alla qualità della vita, al benessere e ai temi della sostenibilità ambientale e sociale – commenta Alberto Mattei, presidente dell’Associazione italiana nomadi digitali – temi come il lavoro da remoto e il nomadismo digitale, se seriamente considerati, possono contribuire a ridurre il divario economico, sociale e territoriale in Italia”.
Giacomo Trovato, country manager di Airbnb Italia, spiega invece che “con l’affermazione del lavoro da remoto, sono sempre di più coloro che non hanno la necessità di recarsi in ufficio quotidianamente: per la prima volta, milioni di persone possono vivere ovunque, determinando così il più grande cambiamento nel mondo dei viaggi”. Lavoro, insomma, ma anche turismo e nuovi stili di vita che si mescolano.
Altri fattori che influenzano la scelta dell’Italia
Più del 70% vorrebbe conoscere in anticipo e con più chiarezza tipologie e costi degli alloggi disponibili a medio-lungo termine e il 60% desidererebbe informazioni sui trasporti e/o mobilità locale (autonoleggi, trasporti pubblici, share mobility) che evidentemente risultano ancora difficili da reperire – in effetti il mercato immobiliare italiano è un Far West notevole. Mentre il 52% ritiene importante avere a disposizione convenzioni con attività e servizi locali (ristoranti, bar, palestre, lavanderie): anche sotto questo aspetto, dunque, emerge la necessità di fare rete. Sembra una formula abusata ma è esattamente quel che serve. Il 30% dei remote worker e nomadi digitali che vorrebbero trasferirsi temporaneamente desidera inoltre trovare accordi già pronti con professionisti e consulenti locali esperti in materie legali, fiscali, assicurative, amministrative e facilitazioni per l’ottenimento del visto. Non è un caso che il 55% degli intervistati vorrebbe trovare in un unico portale “ufficiale” tutte le informazioni specifiche di cui ha bisogno per confrontare le destinazioni e fare le proprie valutazioni.
I primi passi del visto per i “nomadi digitali”
In definitiva, è necessario aumentare la consapevolezza di operatori pubblici e privati, istituzioni e cittadini su chi siano realmente i “remote worker” e i “nomadi digitali” e quali sono loro le loro esigenze. Inoltre bisogna progettare offerte coordinate e strutturate di prodotti e servizi specifici e infine sviluppare una comunicazione internazionale adeguata in grado di informare e attrarre questi viaggiatori/lavoratori. L’ultima versione del visto per i “nomadi digitali” incluso nel recente decreto Sostegni ter, attraverso il quale questa categoria di persone è stata aggiunta alle categorie di lavoratori stranieri a cui può essere rilasciato il nulla osta al lavoro per casi particolari, è un primo passo. Il provvedimento li individua come cittadini di un paese extra-Ue (agli europei non serve ovviamente alcun permesso) che svolgono attività lavorativa altamente qualificata da remoto in via autonoma o per un’impresa anche non residente nel territorio italiano. A queste persone, in attesa di ulteriori dettagli rimandati a un decreto interministeriale (per esempio sul reddito minimo previsto), non sarà richiesto il nulla osta al lavoro e verrà rilasciato il permesso di soggiorno della durata di un anno. Basteranno un’assicurazione sanitaria e il rispetto delle disposizioni di carattere fiscale e contributivo vigenti dell’ordinamento nazionale, aspetto che invece potrebbe creare qualche grattacapo in più.