Perché il rapporto tra natura e tecnologia va (completamente) ripensato
A primavera prossima, la Triennale di Milano metterà in scena per diversi mesi un grande progetto intitolato Broken Nature, incentrato sulla relazione fra natura e spazi abitati. Se ne parlerà tanto, perché la questione proposta va molto al di là dell’estetica o della semplice sostenibilità, diventata ormai una formula così generica da sfociare nel luogo comune. Stiamo parlando di un nuovo orizzonte nell’antichissimo, affascinante, tutt’altro che semplice rapporto fra natura e prodotti umani, fra ambiente e progettazione, e stiamo parlando di qualcosa che riguarda non pochi addetti ai lavori ma l’intera nostra esistenza. Perché è cominciata in questo senso una nuova era, che mette definitivamente nello specchietto retrovisore tanto quell’idea conservatrice dell’ambientalismo fatta di divieti e negazioni, quanto quella malsana logica per cui costruire equivale a cementificare.
C’è oggi una progettazione – il simbolo è evidentemente il Bosco Verticale di Stefano Boeri – che costruzione e ambiente, natura e progetto umano, li sposa indissolubilmente perché li pensa indissolubilmente fin dal principio, li vede e li vive non in contrasto ma in simbiosi. Perché è consapevole che l’ambiente lo si protegge davvero non facendo leva sui sensi di colpa morali o sulla paura della catastrofe, ma espandendo, portando in mille forme la natura nelle grandi città e nelle abitazioni, creando le condizioni per uno sviluppo della biodiversità, e d’altra parte mostrando che costruire valorizzando gli elementi naturali è non soltanto più etico ma alla fine più vantaggioso. È proprio perché tante risorse e tanti ambienti naturali sono stati messi in grave pericolo che il pensiero politicamente corretto della sostenibilità, dell’ecocompatibilità, dell’ambientalismo, non è più minimamente sufficiente perché può quando va bene chiudere qualche falla ma non è all’altezza della sfida – urbanistica, progettuale, vitale – che il mondo in mutamento sta proponendo.
Lana Del Rey – meravigliosa cantante, per chi molto colpevolmente non la conoscesse, con un master in metafisica – afferma di cercare il punto di unione fra Dio e la tecnologia: ecco, in questa sua combinazione quantomai inaspettata c’è il senso connettivo del mondo in cui stiamo vivendo, ed è un orizzonte così più vasto di prima che il tradizionale pensiero logico binario non è minimamente in grado di abbracciare. Contrariamente a quel che esso pensa, le nuove tecnologie, la ricerca, la scienza, sono le migliori amiche della natura. Se i nuovi materiali tecnologicamente avanzati, se le macchine che nelle nostre abitazioni si parlano, sono concepiti e programmati per risparmiare energia e risorse, per ridurre i consumi, per favorire la formazione di microclimi, per abbattere l’inquinamento, è piuttosto evidente che la natura ne trae giovamento infinitamente superiore a quanto un mondo arroccato nella diffidenza antitecnologica potrebbe mai garantire.
Allora ciascuno di noi può e deve continuare ad adottare quei comportamenti e compiere quei mille gesti quotidiani che servono a non sprecare preziose risorse: ma è sui grandi scenari che si gioca questa decisiva partita, è nella capacità della progettazione urbanistica, architettonica, ingegneristica, scientifica, tecnologica, e anche filosofica, di coniugare evoluzione e natura, protezione e mutamento. È nella capacità di ciò che è nuovo di ottimizzare ed espandere ciò che è eterno. È così che funziona: più il tecnologico avanza, più la natura e l’umano ne sono potenziati e valorizzati.