La narrazione continua del cibo
Dentro alla scommessa di FICO c’è il tentativo di scaricare a terra la forza immateriale del cibo italiano. Un percorso replicabile anche da altri settori, anche più vergini del food in termini di narrazione.
Cibo immateriale
La narrazione del cibo italiano è cominciata anni fa, per mano di singole aziende, in maniera del tutto scoordinata. Le più forti, quelle con la produzione in Italia e il mercato anche all’estero, hanno aggiunto un po’ di storia e di alito di italianità alla forza del loro marchio, acquisita in anni di gomitate tra concorrenti di Paesi stranieri.
La storia di queste grandi imprese alimentari, quella che ha percorso le televisioni ed i giornali, aveva dietro il genio dei grandi comunicatori provenienti dal mondo dell’immagine e della pubblicità.
Il primo cibo immateriale era fatto con il video, lo spot del grande regista, la colonna sonora del grande compositore, e il cartellone del grande fotografo. Ma dentro c’era un po’ di famiglia, un po’ di marchio, un pizzico di terra.
Con Expo è arrivato il secondo cibo immateriale, quello che le medie imprese hanno governato con:
– un piccolo stand per comunicarsi al pubblico passante;
– un social media manager per essere presente nel mondo veloce del social network, dove foto e hashtag governano i flussi;
– un vero piano di comunicazione per raccontarsi, per la prima volta, uscendo dalla provincia per incontrare il mondo.
Modello Eataly
Con Eataly è arrivato il tentativo di raccontare il cibo con metodo: partendo dalla raccolta di una profonda eredità, seminata generosamente da Slow Food e lasciata senza padrone, Eataly ha fuso cibo e Italia, terra e prodotto in una sola parola. E l’ha fatto con la stessa pratica di chi negli anni Ottanta a Milano ha pensato di costruire quartieri, invece che palazzi.
Infatti in Eataly c’è il cibo in tutte le sue forme – materiali e immateriali – non semplicemente il bancone, e il modello di FICO replica questa logica, con l’attività del nuovo spazio di Bologna che poggia infatti su tre azioni coordinate:
– la vendita, affidata ad aziende e ristoratori;
– la formazione;
– la produzione.
Il modello di business è quindi più vicino a quello di un centro commerciale – laddove non si paga per entrare, come invece in un parco divertimenti – ma si fanno ricavi da affitti e dai ricavi dei soggetti commerciali ospitati.
L’idea di condire un’attività commerciale con la dimostrazione di come si realizzano i prodotti, e la diffusione del sapere, anche di base, relativo a essi, è originale, e il cibo è il prodotto più semplice per iniziare ad applicarla.
Una scommessa aperta
Il grande spettacolo di Expo e la voglia di cibo nel mondo – soprattutto italiano – sono i buoni presupposti per ogni iniziativa che riguardi oggi l’agroalimentare di casa.
Ecco il motivo di una buona scommessa, che rimane pur sempre coraggiosa, per le diffuse difficoltà di:
– realizzare dei margini consistenti (sempre notoriamente ridotti nel settore food) o aumentarli anche dove ci sono molti visitatori;
– riportare in scena il cibo, dopo Expo, replicandone buoni flussi di visite;
– rendere omogenea la capacità di comunicare delle aziende che partecipano a progetti come questo.
Una scommessa che però può essere anche un piccolo seme per far nascere anche in altri settori economici italiani, già noti, la voglia di comunicare al mondo in modo nuovo.
Nel modo in cui oggi i consumatori desiderano dialogare con i propri fornitori; volendo sapere chi costruisce la maglietta che indossano, l’auto che guidano, la sedia su cui stanno seduti.
In altri settori in cui invece, tranne che in rarissime occasioni, non si leggono ancora storie, non si condividono ancora sapéri. E la conoscenza è ancora solo quella degli occhi, affiata a registi e fotografi. Mentre il cibo ha insegnato che il valore immateriale è quello in grado di fare ricco un prodotto. E moltissimi prodotti, nonostante la popolarità, hanno ancora storie infinite e spesso inedite da raccontare.