La fine dei pionieri. Lo sviluppo di Meta e la nuova idea di Public Company digitale
Tra i tanti spunti di riflessione che possono sorgere dalla recente trasformazione di Facebook in Meta, c’è un tema che probabilmente merita maggiore attenzione poiché nasconde un forse non ancora del tutto visibile passaggio generazionale nello sviluppo del nostro mondo.
Questo passaggio rappresenta una visione del futuro in cui l’internet economy cambierà in modo radicale il modello di business che oggi la contraddistingue.
Fermiamoci un attimo su questo punto: la nostra attuale “internet economy” è guidata da “pionieri” che lottano per lo standard.
Questa configurazione ha un significato economico profondo, che deriva da una “configurazione del mercato” pre-internet e pre-rivoluzione digitale: non è un caso che uno degli “esempi” che più hanno “fatto scuola” è quello del Fax.
Il Fax, infatti, per lungo tempo è stato un prodotto di “nicchia” con pochissime vendite e pochissime persone che lo utilizzavano. Poi però ha conosciuto in pochissimo tempo un’espansione incredibile sul mercato, fino a raggiungere un momento in cui il Fax lo avevano praticamente tutti.
Questo perché, in soldoni, quante più persone acquistavano e utilizzavano il Fax, tante più persone venivano “invogliate” ad acquistarne uno. Che è come dire, quante più persone utilizzano WhatsApp tante più persone ne fanno il download.
È chiaro che in una conformazione di questo tipo la concorrenza sia “totale”.
Se la competizione è finalizzata a raggiungere quella “massa critica” di utenti che trasforma il mio prodotto in uno “standard”, qualsiasi altro operatore che fornisce servizi e prodotti volti a soddisfare lo stesso tipo di richiesta è un competitor da “eliminare” o, al massimo, da “acquisire”.
Ecco in soldoni spiegata la storia recente di società come Windows, Adobe, Facebook, Google.
Vi chiedete come mai i prodotti Apple sono compatibili soltanto con prodotti Apple? Ecco la risposta: il problema dello “standard” è che, una volta divenuto un player “unico”, puoi assumere comportamenti “rigidi”. Il che funziona bene, fino a quando riesci a mantenere la condizione di “player di riferimento”.
In questa conformazione del mercato, però, l’innovazione è un processo che vede pionieri che investono in ricerca e sviluppo e che trovano nuove soluzioni (l’iPod), e gregari che studiano i prodotti dei pionieri e se riescono acquisiscono le loro società o se non riescono si inseriscono nel mercato replicandone la tecnologia.
La costruzione del Metaverso però non può essere una questione da holding. Un holding con sufficienti risorse economiche può costruire un metaverso, ma non uno spazio di lavoro “unitario”.
È un po’ come costruire una nuova nazione, anzi, un nuovo “web”: e non è una cosa che si può fare “in casa”.
Con la differenza che nel 1991, quando Tim Berners Lee pubblicò il primo sito web della storia, decise di coinvolgere una comunità di ricercatori e sviluppatori fornendo gratuitamente tutto il necessario affinché il web stesso potesse svilupparsi.
A distanza di trent’anni, però, le cose sono un po’ cambiate: ed è qui che entra in gioco lo sviluppo del metaverso e le logiche economiche con le quali Meta ne vorrebbe attuare l’applicazione.
La logica che ne è alle spalle trae ispirazione da quanto fatto da Google negli anni, ma in modo differente; il motore di ricerca, nel tempo, ha fatto molto più che facilitare la ricerca di siti che rispondessero alle “query” che digitiamo quando cerchiamo un contenuto: ben conoscendo la guerra dello standard (non a caso l’esempio del Fax è tratto da un libro scritto da Page), Google ha nel tempo acquisito sempre più tecnologie, prima vendute a chi voleva costruire siti, e le ha rese gratuite ai propri utenti, perché quante più persone producono siti web indicizzabili, tanto più Google avrà ragione d’esistere.
Ciò che fa Meta è invece differente: l’obiettivo non è quello di comprare le tecnologie e renderle disponibili per fare in modo che tutti possano poi utilizzare il metaverso di Facebook. Meta lancia un progetto, chiedendo a società specializzate di sviluppare prodotti proprietari, che vengano venduti ad altre società, una sorta di crowdsourcing collettivo ispirato alla creazione di un “nuovo mondo”, dove però non c’è un gigante che “annienta”, ma una pluralità di soggetti che cooperano alla creazione delle tecnologie necessarie affinché questo nuovo mondo possa essere costruito e, soprattutto, affinché ci siano le condizioni che inducano le persone ad “abitarlo”.
Oggi esistono già metaversi, e alcuni di essi si fondano su tecnologie innovative e importanti, ma hanno un limite: sono “isole” separate. Per quanto i vari “Decentraland” e “SecondLife” possano essere vasti, essi hanno la stessa portata di un “videogame” in cui è possibile giocare con gli amici: un mondo sconfinato da cui si entra, e si esce. Chiusa la connessione con Decentraland, ciò che è avvenuto a Decentraland resta in quella dimensione.
Ma cosa accade se tutti i Decentraland iniziano a cooperare al punto da creare una costellazione di metaversi in grado di interagire anche con il mondo reale? Significa che se compro un paio di scarpe per il mio avatar in Decentraland lo posso indossare anche per “uscire” con gli amici in modalità ibrida. Significa che in una galleria posso acquistare un’opera d’arte fisica, e nel frattempo, disporla nello spazio del mio ufficio virtuale.
Per ottenere questo risultato, però, è necessario un esercito di “costruttori” (programmatori – designer 3d – ecc.) che dovrà “trovare dei guadagni” diretti nella costruzione di questo mercato.
E questo è un passaggio che non deve sfuggire, perché c’è un altro motivo per cui Meta punta alla costruzione “condivisa” di questa dimensione.
Prendiamo ad esempio il caso di Sidewalk Lab, la società di Alphabet (Google) che doveva costruire a Toronto un modello innovativo di quartiere, con una forte integrazione tra intelligenza artificiale ed esperienza reale.
Il progetto innovativo e, per molti versi, veramente affascinante, si è poi scontrato con una delle più grandi perplessità dei cittadini: la privacy, le informazioni personali, e la gestione delle stesse.
Le informazioni che diamo ai nostri sistemi informatici sono già tantissime, ma il discorso inizia a cambiare quando a “raccogliere” le nostre informazioni non sono più “apparecchi informatici”, ma “oggetti qualunque resi smart”.
L’orario esatto in cui sei uscito di casa. Quanto tieni le luci accese in ufficio. Quanti cibi scaduti hai mangiato comunque. Quante volte hai fatto esercizio durante la settimana. Dove sei andato con l’auto quando sei uscito nel cuore della notte.
Sono informazioni che nel momento in cui iniziamo a pensare che vengono elaborate da un “processo centralizzato” iniziano a disegnare un presente distopico, che non vogliamo in nessun modo abitare.
Ed è qui che entra in gioco l’Europa. Ed è qui che entra in gioco la visione della costruzione del metaverso come una “public company collettiva”.
Se il metaverso assumerà davvero le forme economiche che Meta si augura di assumere, allora sarà possibile che praticamente in quasi ogni famiglia ci sia una persona che, in modo diretto o indiretto, partecipa alla costruzione del metaverso. Le figure professionali sono tantissime, e sono anche figure professionali “giovani”, vale a dire la fascia di popolazione che trova maggiori difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro.
Se tutti partecipano alla costruzione di questa “dimensione”, allora tutti saranno necessariamente inclini ad utilizzarlo, per fare in modo che possa estendersi. Se vostro figlio apre un negozio di abbigliamento, tenderete a fare di tutto per “agevolare” l’afflusso di clientela. Anche indossare dei capi di abbigliamento che non sono proprio i vostri preferiti. È naturale. È umano.
E allora immaginiamo per un istante che il futuro prospettato da Meta si avveri: quante famiglie inizieranno ad utilizzare, anche in modo improprio, il metaverso? Tantissime.
Quante Partite IVA, quante società verranno create per fornire soluzioni sul metaverso? Altrettante.
Immaginiamo che tutto parta dall’Europa, che è l’angolo di mondo con maggiori restrizioni sulla privacy (eccezion fatta per la Cina, che però risponde ad una logica di gestione delle informazioni concentrate nel settore pubblico): sarà ancora possibile porre “limiti” all’estensione del metaverso? Potrà mai l’Europa, con le sue direttive, prevedere limitazioni che vadano a discapito di così tanti cittadini?
Ora, negli stati uniti le public companies sono quelle società le cui azioni sono parcellizzate su un numero elevatissimo di cittadini: questo significa che la “crescita di quella specifica società” genera un’entrata economica (anche minima) ad un numero elevatissimo di persone.
Il futuro di Meta è simile, ma il cuore della public company che propone non è una “società”, ma un vero e proprio “mercato”.
Infine pensiamo al settore finanziario, e a quanto sia cresciuto da quando sono stati inventati i “derivati”: prima dei derivati il mercato azionario era appunto concentrato sul mondo delle “azioni”, vale a dire quote di società. La società cresceva, le azioni crescevano, la società perdeva, il valore delle azioni diminuiva.
I derivati hanno trasformato questo semplice meccanismo elevandolo a potenza: oggi il possessore di una quota azionaria può acquistare derivati che consentano di guadagnare se quella società perde. Sofisticazioni che hanno consentito quindi di vendere dallo stesso prodotto (la società) infiniti altri prodotti “derivati”, appunto.
Il metaverso di Meta potrà ospitare una propria borsa, potrà ospitare i propri strumenti derivati, che possono interagire o meno con il mondo finanziario reale. In pratica, lo stesso strumento (azione società fisica) viene ad essere immediatamente triplicato, divenendo l’azione della società fisica nel mondo reale, l’azione della società fisica nel solo metaverso, l’azione “integrata” della società fisica e nel metaverso”.
Ridurre il tutto semplicemente ad un “Facebook” ha cambiato nome in Meta soltanto perché stava avendo problemi di sorta mi sembra un po’ riduttivo.
Sicuramente è una parte dell’intero mosaico, ma di fronte ad uno scenario di questo tipo, non di certo la più importante.