Innovare vuol dire credere e rischiare nel nuovo. Chi ci sta?
Per le società innovare è una faticaccia. Lavorando per un’università che persegue in modo sistematico la diffusione e l’utilizzo presso l’industria delle conoscenze generate dalla ricerca scientifica – la cosiddetta “terza missione”, accanto alle più consuete attività didattiche e di ricerca – sono testimone di questa fatica ogni giorno.
Il processo di trasferimento tecnologico, ovvero il passaggio di un progetto di innovazione da una dimensione esplorativa – tipica della ricerca – a una dimensione industriale, richiede il verificarsi di così tanti fattori che quando riesce spesso ci meravigliamo di come sia stato possibile.
Eppure succede: come nel caso del Rotateq, il vaccino per la prevenzione della gastroenterite infantile causata da rotavirus, scoperto dal Children’s Hospital of Philadelphia e trasferito alla Merck che lo ha messo in commercio, oppure con StormVision, il software di WeatherData realizzato su uno speciale algoritmo sviluppato al MIT per l’esatta geolocalizzazione di eventi climatici avversi.
La dinamica con la quale – grazie a un’impresa – un risultato della ricerca si trasforma in applicazione utile alla collettività è affascinante proprio per questa complessità. A dispetto di alcuni tentativi di modellizzazione economica basati su approcci deterministici, alcuni studiosi arrivano a stabilire similitudini con la biologia, perché i processi di trasferimento tecnologico richiedono l’aggregazione e l’interrelazione di molteplici elementi da costituire una dimensione simile a quella della vita e degli organismi viventi.
Complessità dei fattori, varietà e unicità comportamentale dei diversi attori, influenza delle informazioni, natura accidentale di circostanze rilevanti fanno sì che, così come in biologia, si debbano spesso accantonare schemi lineari e velleità predittive. E la distanza che separa una potenzialità dal suo divenire attuale è coperta da percorsi difficili a ripetersi al probabile variarsi delle condizioni di contesto.
Uno studio del MIT evidenzia che ben il 50% dei progetti di ricerca (tra quelli presi in esame) ha prodotto risultati rilevanti, in grado cioè di risolvere problemi concreti o di sviluppare idee nuove, ma che purtroppo solo il 40% di questi ha portato all’applicazione industriale o allo sfruttamento delle idee sul mercato.
Se consideriamo che, in base ad alcune analisi di settore, su 10.000 nuovi composti chimici con potenziale effetto farmacologico solo uno riesce a trasformarsi effettivamente in farmaco, viene facile il parallelismo con la biologia del concepimento. Rischio tecnologico insito nel traslare una certa soluzione dalla scala di laboratorio a quella produttiva, mancanza delle caratteristiche competitive sperate dell’innovazione a valle della sua messa a punto, inadeguata corrispondenza del prodotto sviluppato al bisogno del mercato sono solo alcuni esempi di obiettivi mancati. Prevedere tutto ciò prima di investire energie e risorse? Sarebbe bello, così come avere un mercato perfettamente efficiente in grado di autoregolarsi. Ma non realistico.
E poi c’è l’elemento umano: propensione a innovare, a correre rischi e a vedere lontano, che non tutti possiamo avere, che si somma alla diversità culturale tra i soggetti in gioco quali ad esempio lo scienziato, per il quale il valore risiede nella dimostrazione di una teoria, e il manager/imprenditore, chiamato a fare profitti convincendo altri a comprare i prodotti.
Il bisogno di sicurezza non è inoltre un tratto caratteristico dell’essere umano? Nei contesti dell’innovazione ciò spesso prende forma nel facile atteggiamento di chi dice: “La tua invenzione non funzionerà mai!” Come dargli torto: indubbiamente la statistica è dalla sua.
E poi, quand’anche si abbia un progetto di grande potenzialità, finalizzato alla realizzazione di un assoluto breakthrough tecnologico in grado di rivoluzionare la società, chi è disposto a metterci i soldi necessari per realizzarlo? Ma prima ancora: chi è disposto a crederci?
È la storia di Larry Page e Sergey Brin con Google: forse fare impresa non era nei loro piani sin dall’inizio, ma incontrarono qualcuno disposto a crederci e a staccargli un primo assegno da 100.000$. Ma quanti sono invece i casi di Venture Capital che ogni giorno girano le spalle a portentose idee?
Non importa: perché, sebbene a scherzare con l’innovazione spesso ci si scotti, anche il senso comune ci dice che senza fallimento non c’è progresso. Proprio i Venture Capital della Silicon Valley usano dire “failure as a value” ed investono solo in chi sia passato attraverso almeno un insuccesso, in modo che sia più lucido su cosa non si deve fare.
A proposito, giusto per restare nella Silicon Valley: ci sarà un motivo se tutti, dagli studiosi agli operatori, la chiamano ecosistema dell’innovazione?