Il concetto di Accountability nell’era dei dati
Qualche anno fa, il concetto di accountability entrò prepotentemente all’interno del dibattito pubblico, anche se soprattutto in determinate aree più settoriali del dibattito, promettendo l’inizio di un nuovo rapporto tra organizzazioni (imprese, associazioni, amministrazioni) e cittadini.
La base dell’accountability era il “rendere conto” e la massima espressione di questo fenomeno era indicata nel cosiddetto “bilancio sociale”, un documento nel quale le imprese potevano raccontarsi non solo attraverso la logica di bilancio ma anche attraverso i propri impatti nei propri contesti di riferimento. Era quella l’era del GRI, la Global Reporting Initiative, che fissava in specifici indicatori le dimensioni extra-contabili con cui le organizzazioni aderenti potevano comunicare ai propri interlocutori privilegiati (al secolo stakeholder) le iniziative sociali intraprese, l’attenzione all’ambiente e l’impegno nei riguardi della cultura.
Fu così, dunque, che il grande interesse coinvolse anche il settore culturale, ma con un meccanismo che, in Italia, reiterava un modello di business arcaico. Il modello infatti si basava su queste premesse: ora che le industrie sono chiamate a comunicare “cosa fanno per le comunità”, è probabile che ci saranno più “donazioni” e “sponsorizzazioni”.
Ancora una volta, il mondo culturale registrava al proprio attivo un’opportunità mancata: la vera affermazione dell’accountability avrebbe dovuto condurre ad un rapporto di conoscenza più profondo del mondo imprenditoriale. E la cultura avrebbe dovuto aiutare a definire indicatori che avrebbero potuto guidare gli imprenditori e le industrie nel generare rapporti sul territorio.
Per capire realmente in che modo la cultura abbia sottovalutato l’opportunità dell’accountability è però necessario introdurre nel ragionamento alcuni approfondimenti.
In questo senso, bisogna in primo luogo tener presente che il binomio accountability e responsabilità sociale d’impresa ha trovato grande espansione tra gli operatori multinazionali, tra quelle grandi imprese e public companies di matrice statunitense. Detto in altri termini, grandi capitali, grandissime organizzazioni attive in settori in cui il rapporto tra ruolo dello “Stato” e ruolo del “privato”, presentano combinazioni molto distanti dagli equilibri ravvisabili nel contesto europeo e dei Paesi dell’area mediterranea.
È chiaro che questo background abbia influito sulle dimensioni che hanno inizialmente caratterizzato le azioni di corporate social Responsibility a livello internazionale, mostrando di preferire, in modo prevalente, interventi ad alto impatto nelle zone più povere del pianeta, come la costruzione di scuole, ospedali e altre strutture civili attraverso le quali fornire servizi alla base della cosiddetta piramide di Maslow.
Come ogni grande successo internazionale, tuttavia, anche l’Italia ha tentato di “importare” pratiche di Corporate Social Responsibility, sviluppando anche paradigmi di lavoro specifici, e implementando specifici gruppi di lavoro, di natura principalmente accademica, con lo scopo di diffondere tali attività.
Per qualche anno, quindi, anche nel mondo della cultura c’è stato un manifesto interesse nelle azioni di accountability, ma era un interesse principalmente dettato dalla volontà di “essere parte” di quegli investimenti attraverso i quali le differenti aziende “italiane ed internazionali”, mostravano di avere a cuore non solo il “profitto”, ma anche la cultura.
In pratica, ciò che il settore culturale ha letto nel complesso fenomeno del “rendere conto” è stata una reiterazione di quel pregiudizio un po’ nostalgico che pretende che il profitto perseguito dalle imprese debba scusarsi, quasi giustificarsi, e quindi, necessiti di culturale espiazione attraverso il mecenatismo. Altrimenti detto, la cultura ha pensato che la responsabilità sociale d’impresa altro non fosse che un modo per “chiedere risorse” alle imprese, ma in modo più cool.
Una lettura non solo inesatta, perché nata da presupposti teorici e culturali estremamente differenti da quelli del fenomeno dell’accountability, ma che ha, nei fatti, condotto ad una mancata diffusione non solo dei “flussi di capitali” che la cultura sperava di riuscire ad intercettare, ma anche alla mancata diffusione del fenomeno dell’accountability nel suo complesso.
Ritornando alle significative differenze tra il contesto in cui la CSR e l’accountability si sono principalmente diffuse e il nostro scenario nazionale, c’è un altro elemento che è necessario porre all’attenzione: le differenti dimensioni aziendali, con le spesso conseguenti differenze in termini di competenze ai vertici aziendali, e di dimensioni di fatturato.
Se guardiamo, ad esempio, alla già citata Global Reporting Initiative, e andiamo ad analizzare i singoli “indicatori” attraverso i quali le società possono “rendere conto” del proprio agire nella società, è evidente che gli indicatori siano principalmente strutturati per imprese di medio-grandi dimensioni, con stabilimenti produttivi dislocati in differenti Paesi, con catene di creazione del valore estese, con potenziali impatti sull’ambiente, sulla politica governativa, e su altre dimensioni strutturali del territorio.
Fatte le dovute eccezioni, è obiettivamente più complesso che l’impresa italiana media, essendo parte di un tessuto demografico imprenditoriale principalmente rappresentato da piccole e medie imprese, possa destinare parte delle proprie risorse umane ed economiche non solo alla realizzazione di “interventi”, ma anche alla “misurazione” degli impatti degli stessi, per poi presentare un “report”, un “bilancio sociale”, attraverso il quale creare un rapporto di dialogo con tutti i propri interlocutori, interni ed esterni.
Ed era proprio questa, in realtà, l’opportunità che la cultura poteva cogliere nell’affermazione dell’accountability: divenire il soggetto in grado di “misurare gli impatti” delle azioni indirette dell’agire imprenditoriale, e fornire “visioni” per poter, con un minimo sforzo in termini economici e di ore-uomo aziendali, guidare le piccole e medie imprese nella definizione di attività che fossero “in scala” rispetto all’organizzazione.
Assolvendo a questo compito, la cultura avrebbe potuto cogliere l’opportunità di “interpretarsi” come settore economico in grado di generare impatti sul territorio, di “misurarsi” rispetto a questa interpretazione olistica, e “specializzarsi” nella valutazione di impatti economici e sociali degli interventi culturali e non culturali.
Ciò cui la cultura avrebbe potuto ambire, era sviluppare un profondo know-how, che si poneva come crocevia tra il concetto di accountability come emergente dal fenomeno della responsabilità sociale d’impresa e il concetto di sostenibilità economico-finanziaria che con sempre maggiore evidenza si va via via ancora affermando all’interno delle progettualità culturali.
Misurando l’intangibile, la cultura avrebbe potuto favorire, e non di poco, la misurazione del tangibile, ponendo le basi per la costruzione di un nuovo rapporto con l’imprenditoria nazionale, che per quanto si mostri interessata alla partecipazione alla vita culturale del nostro Paese, è anche irrimediabilmente stanca di essere considerata soltanto come una fonte di finanziamento.
E così l’opportunità è sfumata. Perché se di “mecenatismo” deve trattarsi, allora tanto vale ricorrere all’Art Bonus.