I ricercatori, tante formiche dell’esplorazione che costruiscono innovazione
Il Dipartimento di elettronica, informazione e bioingegneria del Politecnico di Milano nel 2014 ha brevettato il prototipo per un nuovo eye tracker – un dispositivo non invasivo per il monitoraggio automatico della posizione e dei movimenti dell’occhio – pensato per i trattamenti di radioterapia dei tumori oculari, protonterapia e radioterapia stereotassica a fotoni. Una applicazione medicale “classica”, perfetta per le aziende del settore, direte voi. Certo, ma non solo. Perché lo sfruttamento del dispositivo può essere prezioso anche in altri ambiti, molto lontani da quello della salute. Per esempio la comunicazione, o meglio le agenzie di marketing digitale che sono interessate a tracciare il percorso che compie lo sguardo di un utente nella consultazione di un sito web. Banner compresi. E quindi i ricercatori del Polimi si sono uniti a una start up italiana basata a londra, Qwince, e hanno richiesto un finanziamento per lo sviluppo al fondo europeo Horizon.
Vi racconto questa storia per introdurvi una nuova figura che si è affacciata negli ultimi anni nel mondo delle professioni: è il Technology transfer manager, cioè l’esperto di brevetti che lavora per un’università o per un ente di ricerca e che ha come clienti i ricercatori-inventori. Si affianca ai consulenti in materia di proprietà industriale – i professionisti di brevetti – e cioè i Mandatari che operano negli studi di consulenza brevettuale e i Patent manager, che lavorano nell’industria, entrambi occupandosi di valutare i requisiti per la proteggibilità di un’invenzione tramite il brevetto e gestire (direttamente o indirettamente) le procedure di brevettazione.
Questi professionisti lavorano per creare un asset patrimoniale che cresce nel tempo e aumenta il valore dell’impresa, magari costituendo, attraverso il monopolio brevettuale, una barriera all’accesso a una data tecnologia da parte dei concorrenti. A volte arrivano a fare “licensing” (trasferendo cioè i diritti sul brevetto ad altra impresa), ma in tal caso usano il brevetto come valore di scambio per monetizzare o per far acquisire alla propria impresa brevetti altrui di maggior interesse (il cosiddetto “cross-licensing”, uno scambio di brevetti tra imprese). Di rado, invece, la loro attività si accompagna alla costruzione di un pacchetto tecnologico, e quindi a un investimento, su qualcosa destinato ad altri.
Qui sta la peculiarità del mestiere del Technology transfer manager, che decide di brevettare con la sola ed esclusiva intenzione di trasferire il brevetto ad altri, che sfrutteranno poi commercialmente quella tecnologia. Le università infatti non hanno alcun interesse a tenere nel cassetto i propri brevetti, perché non hanno business da difendere o asset su cui fare speculazione: hanno al contrario l’obiettivo di rendere disponibili alla collettività i risultati delle loro ricerche.
Il percorso delle università è però in salita, perché se il brevetto si inserisce esattamente nella traiettoria di sviluppo di un’azienda (che quindi è già in grado di padroneggiarne gli aspetti tecnico-strategici), l’università ha buone opportunità di fare licensing, e quindi di trasferirlo. Se invece questa rara e fortunata circostanza non si verifica, diverrà necessario costruire un pacchetto composto da un’innovazione proteggibile più la dimostrazione che può funzionare su scala industriale portando dei vantaggi, e arrivando magari a fornire anche le istruzioni (know-how) per implementarla, in modo da superare la sindrome aziendale “NIH” (Not invented here), cioè l’ostilità per tutto ciò che è stato sviluppato fuori dall’impresa.
Perché allora le università non si limitano a brevettare solo ciò che interessa direttamente le aziende? Perché il mercato delle tecnologie è fatto di varie opportunità e quanto più ampio è il bacino, tanto maggiore sarà la capacità del sistema di generare innovazione. Limitare l’esplorazione significa limitare l’innovazione.
Parlando per metafore: finché il salmone non nasce e non prova a risalire la corrente, non sarà dato capire quali esemplari hanno la forza di arrivare in fondo. Perciò, quanto più ampio è il numero degli esemplari in gioco, tanto maggiore sarà la probabilità che qualcuno arrivi sino in fondo.
Il mercato è il terreno in cui avviene la selezione naturale, ed è lì che il Technology transfer manager si deve cimentare, proiettandosi verso uno scenario di applicazione della tecnologia, raccogliendo elementi utili alla valutazione circa il reale interesse dell’industria su una potenziale innovazione che nella maggior parte dei casi deve ancora essere messa a fuoco.
La distanza tra il potenziale e il reale obbliga spesso a trasformare una soluzione, pensata originariamente per un dato contesto, in una applicazione – a volte notevolmente – differente. É il salmone che se trova un ostacolo cambia strada, ma arriva alla meta. Ed è il caso appunto della storia che vi ho raccontato. Il ruolo del Technology transfer manager quindi non è quello del selezionatore: selezione di cosa? E su quali basi? Che vengano dall’accademia o dall’industria, dove si fa ricerca i “signor no” non servono: servono piuttosto tante “formiche” dell’esplorazione che incessantemente sperimentano nuove strade e applicazioni per ogni nuova scoperta.