Greenwashing o vero sviluppo sostenibile?
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Se avete avuto modo di imbattervi nella recente indagine di Eumetra su come la pensiamo in Italia in merito alla sostenibilità, saprete che il 72% delle persone intervistate è convinta che le imprese dovrebbero occuparsene seriamente e il 67% ritiene giusto che le aziende di qualsiasi dimensione, vieppiù quelle grandi, tengano conto degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile anche se ciò dovesse comportare un aumento dei prezzi dei prodotti o dei servizi. Dalla stessa ricerca emerge però anche un bel po’ di scetticismo. Il 48% degli italiani infatti crede che le imprese si stiano occupando di sostenibilità per una sorta di greenwashing, quando invece dovrebbero abbracciarla nell’interesse dell’impresa stessa (38%).
Cos’è il greenwashing?
Il neologismo greenwashing è una sincrasi delle parole inglesi green, il colore simbolo dell’ecologismo, e washing, lavare, che richiamando il verbo to whitewash con il senso proprio di “imbiancare, passare una mano di calce”, assume per estensione il significato di “coprire, nascondere”. Dunque, quasi la metà degli italiani intervistati non crede al reale interesse delle aziende a svilupparsi seguendo criteri di sostenibilità ambientale, sociale e di governance, anzi percepisce che dietro alle loro campagne di comunicazione, che effettivamente stanno proliferando, vi sia solo l’obiettivo di darsi una patina di credibilità.
Serve un cambiamento della cultura aziendale
In effetti per essere ascoltati e scelti, oggi occorre sempre più essere capaci di esprimere una posizione che sappia stimolare pensieri ed emozioni condivisibili. Questo perché abbiamo bisogno di ascoltare storie nuove che rompano gli schemi di un passato che ha generato un presente percepito come poco trasparente, dove regnano ingiustizia, diseguaglianze, sperequazioni e dinamiche economiche e sociali insostenibili per il Pianeta. Condividere una visione valoriale rafforza la fiducia delle persone in una marca, in una azienda, in un prodotto, in un manager, in un politico, in un progetto di governo. Occorre quindi una narrazione potente, ma anche coerente. Per credere che lo sviluppo sostenibile, inteso come motore del cambiamento, sia entrato realmente nelle aziende come nelle organizzazioni sociali, le persone debbono poterlo riconoscere, debbono riconoscerlo nella cultura aziendale che ha saputo e voluto modificare il proprio agire.
Quali sono i settori più impegnati?
Altrimenti la sostenibilità resta una favoletta, ritenuta, come abbiamo appunto detto, solo il racconto di una ennesima bella storia. Invece, secondo gli intervistatati, un’impresa realmente impegnata per lo sviluppo sostenibile dovrebbe: essere seria nell’affrontare questi temi (75%); trattare bene i clienti (71%) e i dipendenti (73%); assicurare la qualità dei prodotti (73%); rispettare l’ambiente in tutte le attività (73%); essere attenta ai temi sociali (70%); al territorio in cui opera (73%) e all’uguaglianza di genere (66%). In termini di percezione dell’impegno su questi temi, i settori più apprezzati sono quello alimentare, automobilistico, farmaceutico, della grande distribuzione e dei mezzi d’informazione, mentre i settori bancario, energetico e delle imprese di telefonia sono considerati meno impegnati.
La circolarità non basta. Serve la sfericità
Il mio auspicio, come ho già potuto dichiarare nelle interviste a margine del mio intervento alla giornata milanese del Festival dello Sviluppo Sostenibile organizzato da ASviS, è che anche su questo fronte, come per quello dell’innovazione tecnologica in cui pure siamo mediamente più arretrati rispetto ai nostri gemelli europei, si arrivi a imprimere un’accelerazione del processo in termini di consapevolezza e conoscenza dello stato dell’arte. Ma soprattutto mi auguro che ci si decida ad agire attivamente con la reale convinzione che le aziende sono fatte di individui il cui ruolo di agenti del cambiamento mai come in questo contesto è stato più importante e centrale. Limitarsi al solo scopo di business non è più sufficiente. Da qui l’idea di proporre agli individui una provocazione a muoverci dal concetto di circolarità, i cui principi sono già applicati in economia, per arrivare a quello di sfericità semplicemente integrando nei principi di circolarità anche la dimensione del basso, cioè le radici, le origini, e dell’alto, cioè la vocazione, il valore a cui tendere. Così si supera la logica “dell’agire per soddisfare bisogni” e si entra in quella “dell’agire per uno scopo”.
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