Grazioli: “Gli allevamenti intensivi? Alimentano i meccanismi di potere capitalistici”
Intervista con l’autrice di “Capitalismo carnivoro”, un saggio in cui il sistema di produzione della carne a buon mercato viene smembrato fra filosofia politica e antropologia: “Racconto le interazioni globali che sfuggono tra le pieghe della necessità fisica del nutrirsi e come tale intreccio venga sfruttato da alcuni a discapito di tutti”.
Ti immergi con l’idea di sfogliare un buon saggio sull’industria della carne e le sue infinite miserie e ne esci con un profondo lavoro di riscrittura dei tuoi valori. Ben oltre l’indignazione, verso un’umile immersione nei propri limiti individuali e collettivi, quelli di paesi ricchi e in ostaggio delle proprie, carissime contraddizioni. L’industria della carne – pietra portante del capitalismo perché offre proteine a buon mercato a un pezzo di mondo a scapito di quello nascosto, di solito il più povero e marginalizzato – ne esce come punto di partenza per una critica a tutto tondo al mondo e al modo in cui viviamo. Nutrirci è un atto politico, anzi di filosofia politica. E “Capitalismo carnivoro” (Il Saggiatore, 216 pp., 19 euro) ci costruisce intorno il cuore di una riflessione che ai dati su allevamenti e agricoltura intensiva nel mondo mescola testimonianze sul campo, ma soprattutto lampi di puro decostruzionismo del paradigma moderno e contemporaneo di produzione e consumo della carne.
Francesca Grazioli, che oggi vive a Roma e lavora per il centro internazionale di ricerca Bioversity International, dispone d’altronde della biografia (oltre che della sensibilità) giusta per firmare un saggio molto anglosassone nel taglio e nella scrittura: studi classici a Piacenza, laurea in Economia alla Bocconi, esperienze all’estero in una ong a Calcutta sul microcredito e sull’emancipazione rurale femminile e poi un impiego per la Banca mondiale a Maseru, capitale del Lesotho. Non solo: al rientro in Italia la 34enne ha prima approfondito i temi legati alla sicurezza alimentare e del mondo della gastronomia in generale con un master all’Università di Scienze Gastronomiche a Bra, in Piemonte ed è stata poi chiamata alla Fao di Roma per lavorare in un team specializzato in resilienza alimentare e politiche per la sicurezza alimentare di comunità rurali e pastorali. Qui, si è divisa tra l’Italia e altri paesi dell’Africa sub-sahariana (Kenya, Senegal, Mauritania, Etiopia), toccando con mano la complessità portate dalle forti diseguaglianze economiche, i conflitti e la devastazione climatica. Per aggiungere una visione più interdisciplinare, ha iniziato a lavorare per un’altra agenzia internazionale, l‘Alliance di Bioversity International e Ciat, dove si occupa di agrobiodiversità, sostenibilità e riconoscimento dei saperi tradizionali, per lavorare in stretta collaborazione con le comunità di riferimento.
Prendiamo il tema di petto: il sistema della carne industriale, architrave del meccanismo capitalista in cui viviamo, è marcio in ogni suo aspetto. Non c’è nulla di salvabile né nella teoria né tantomeno nella pratica, a prescindere da ogni valutazione etica. Eppure, se anche i consumi calano, gli allevamenti e l’agricoltura intensivi godono di una narrazione ostinatamente falsa e ambigua: perché e fin quando potrà tenere, quel velo?
“L’intricata tela che copre e trasfigura il mondo degli allevamenti intensivi è tessuta a più mani, quelle dell’industria che sfrutta l’immaginario collettivo delle campagne felici, quanto le nostre, ogni volta che sentiamo la necessità di soffocare il disagio che altrimenti proveremmo di fronte a una presa di coscienza vera. Non è tuttavia solo una questione di anestesia collettiva legata all’immediata soddisfazione che può dare un piatto che deriva da tali processi produttivi, in cui gli animali diventano semplici ingranaggi al pari delle strutture stesse che li contengono. Il cibo è un universo composto da dilemmi intimi quanto relazionali, è un linguaggio che codifica nella sua quotidianità il sistema di valori presenti in un determinato luogo e momento storico. Che cosa rappresenta allora la carne oggi, al di là del suo aspetto nutrizionale o gustativo? Porci questo interrogativo ci può aiutare a rispondere alla tua seconda parte della domanda, cioè fino a quanto possa tenere questo velo. Se la carne rappresenta ancora oggi una certa idea del nostro dominio sulla natura, di una certa mascolinità e di una certa ricerca di status sociale, un crescente numero di persone sta dimostrando il proprio scetticismo verso tale sistema di valori; discussioni tenute ai margini, anzi derise e silenziate come quelle ecologiste o anti-speciste dei decenni scorsi stanno diventando parte del dibattito comune. Come il sistema reagirà a queste nuove interazioni, ora che prendono una massa critica sempre maggiore, dipenderà anche da quanto gli eventi climatici estremi diventeranno troppo ingombranti per essere ignorati anche dal Nord Globale”.
Se le dicessero che il suo è un libro di filosofia politica, più che un saggio sul ruolo della carne e sull’orrore degli allevamenti intensivi, come la prenderebbe?
“Sorriderei, e ne sarei contenta. Sia durante il processo di ideazione, che durante la scrittura stessa, non ho mai pensato Capitalismo Carnivoro all’interno di una categoria specifica. A dire la verità non era nemmeno una mia intenzione iniziale dare così spazio agli allevamenti intensivi. È come se fossero stati loro a imporsi; ogni filo che cercavo di dipanare, dalla siccità estrema della scorsa estate, alle falde acquifere di intere regioni ormai compromesse, le condizioni lavorative di chi produce il nostro cibo, l’uccisione di numerosi attivisti ambientali, l’erosione del mondo rurale, mi portava inevitabilmente a loro. E al sistema ideologico, politico ed economico di cui sono figli. E in cui noi stessi siamo inseriti. Questo è quello che ho tentato di fare. Portare alla luce i meccanismi di potere che si nascondono nell’atto quotidiano del mangiare, le interazioni globali che sfuggono tra le pieghe della necessità fisica del nutrirsi, e come tale intreccio di bisogno e invisibilità sia sfruttato da alcuni a discapito di tutti. Il mondo del cibo, della carne, sfuggono alle definizioni perché sono pratiche quotidiane e private quanto pubbliche e collettive, locali come globali; pertanto ho dovuto attingere a tutti i saperi che riuscivo a codificare, l’economia come la filosofia, l’antropologia e la biologia, per cercare di catturarne l’essenza il più possibile”.
Il suo lavoro espone, con un taglio diverso dalla saggistica sull’argomento almeno per il panorama italiano, tutte le contraddizioni della carne. Eppure di soluzioni sostanziali e percorribili, a parte lo scardinamento del capitalismo per come lo conosciamo o le quotidiane scelte individuali, se ne vedono poche: quale sarebbe la sua prima mossa, se fosse in grado di avere un’influenza sul tema?
“È vero, non è semplice muoversi all’interno di quella che sembra una dicotomia tra l’azione del singolo e lo scompaginamento totale dei nostri punti di riferimento. Come esercizio immaginativo, la prima azione che farei, è quella di modificare il sistema di incentivi comunitari o statali che al momento finanzia ancora per la maggior parte il sistema intensivo, sia attraverso la facilitazione d’acquisto dei mangimi come mais e soia che attraverso esenzioni fiscali e facilitazioni all’export. L’illusione di fornire cibo a basso prezzo è tempo che si scontri con la realtà degli alti costi che stiamo pagando collettivamente sia in termini ambientali che di salute. Tali sussidi non avvengono in un vacuum politico, ed è in questa crepa, in quanto cittadini, che possiamo inserirci con varie modalità. Si dovrebbero attuare misure che disincentivino, che limitino, pratiche fortemente negative per l’ambiente, la collettività e il benessere animale. Vi sono varie norme a livello sia statale che comunitario che ad esempio richiedono sistemi di filtraggio delle acque, trattamento dei liquami, standard di trattamento animale, tuttavia non vi sono sistemi reali sia per mettere in atto controlli efficaci né multe che rendano tali pratiche un rischio reale per le imprese. Così come sarebbe invece necessario facilitare e incentivare sistemi produttivi più sostenibili, alleggerire la burocrazia dei piccoli produttori e cercare di rendere il piano di gioco più eguale tra le parti”.
Viviamo nell’epoca dell’ipersemplificazione: le filiere fatte di più di due passaggi, quali che siano i beni che producono o distribuiscono, escono dalla capacità divulgativa e così l’opinione pubblica perde la capacità di esplorarne la complessità e tracciarne le origini. Anche il percorso della carne, dall’animale alla tavola, rientra in questo cono di ignoranza: come pensa che andrebbe raccontata dai media?
“Uno sforzo di coraggio. Questo dovrebbero fare i media. Non coraggio nel denunciare le condizioni degli allevamenti, questo già avviene, non è il fatto che non vi sia materiale a riguardo il problema. Ma il coraggio di tornare a una certa complessità, di dare fiducia a chi legge, guarda o scrolla il contenuto in quanto figura adulta, nel senso di persona in grado di elaborare informazioni, non solo passare da un’emozione all’altra. Il mondo del cibo andrebbe raccontato per quello che è oltre la spettacolarizzazione della sola fase preparativa, nella sua manifestazione edonica. Non penso sia un problema legato solo al settore alimentare. Ci siamo disabituati all’attenzione, al piacere del dettaglio, al dubbio. Inoltre, in questa rincorsa al suscitare paura e indignazione, si polarizza il discorso sempre e solo a livello di consumo. Mentre dovremmo muoverci nella direzione del desiderio verso un sistema diverso, e una rabbia fertile che torni a farci sentire capaci di cambiamento. E questo può accendersi attraverso un allenamento all’empatia, mostrando i volti di chi resiste, di chi si mette in discussione, come i contadini e i produttori che ho incontrato in Burkina Faso, come in Vietnam che sta immaginando e creando un mondo diverso”.
Gli allevamenti intensivi sono un pezzo importante delle cause del riscaldamento globale e al contempo aggravano divari e ingiustizie sociali su cui il sistema di perpetua: come se ne esce?
“Mark Fisher sostiene che è più facile immaginarsi la fine del mondo che la fine del capitalismo. Per uscire da un sistema che sta distruggendo il pianeta, con un impatto maggiore proprio in paesi in cui le istituzioni democratiche sono più giovani e spesso più fragili, e quindi con conseguenze più gravi sulle popolazioni, è necessario prima di tutto avere il coraggio di riconoscere che vi siamo dentro. Per noi che riusciamo a coglierne gli aspetti positivi, proteine animali a buon mercato, bisogna accettare di sentirci a disagio, di mettere in discussione la nostra condizione di privilegio, per poi guadagnarne in termini di accesso a un senso di comunanza più grande. Di quale rete globale faccio parte con i miei consumi, con le relazioni che creo, con la narrativa che porto avanti? La maggiore consapevolezza di dove viene il nostro cibo, la possibilità di cambiare direzione ai nostri consumi e chiedere anche a livello politico che il nostro cibo smetta di essere tra le prime cause del cambiamento climatico hanno un’infinità di declinazioni nelle pratiche quotidiane di ognuno. Il primo passo comincia dallo smuovere il velo che abbiamo citato all’inizio, serve poi uno sforzo immaginativo e di creazione”.
C’è qualcosa che ha lasciato fuori dal libro e su cui vorrebbe tornare presto?
“Inizialmente volevo inserire anche il negativo del mondo della carne, ossia la risposta vegetariana e le sue diverse declinazioni antiche e moderne. Mi incuriosisce come le risposte e i tentativi di ribellione allo status quo carnivoro vadano dalla ricerca di una purezza quasi eterea, al bisogno di emanciparsi anche dalla propria, di carnalità, all’abbracciare contaminazioni fra diverse specie, a una messa in discussione di sistemi di cui una certa carne si fa vessillo, come il patriarcato e il razzismo. Che cosa hanno in comune le colazioni organizzate per le proprie comunità dai Black Panther, l’estetica del cibo andato a male dei gruppi punk e le suffragette inglesi di inizio secolo? L’uso del cibo come arma di rivoluzione o di riscrittura di una propria identità, quando la vecchia era ormai non più indossabile. Adesso che ho affrontato di petto i problemi del mondo della carne intensiva, mi chiedo, quali saranno dunque, le prossime rivoluzioni che partiranno dai campi e dalla tavola?”.