Gli algoritmi possono essere più creativi di noi?
Fin dalla comparsa dell’Homo habilis (oltre due milioni di anni fa) ci siamo sempre considerati gli esseri più creativi del pianeta: dobbiamo mettere in dubbio, oggi, questa nostra convinzione?
Gli algoritmi sono intelligenti?
Ada Byron (moglie del Conte di Lovelace) era rimasta affascinata dalla “macchina analitica” (di Charles Babbage) e aveva intuito le sue potenzialità. Nel 1842 scriveva che la “macchina analitica” poteva essere programmata, e riprogrammata, per eseguire diverse funzioni (cosa rivoluzionaria all’epoca), anche se “Non è possibile ottenere dalla macchina più di quello che abbiamo inserito”.
Quasi un secolo dopo, Alan Turin nell’articolo “Computing Machinery and Intelligence” (1950) si domandava se un computer sarebbe stato in grado di prendere decisioni e risolvere problemi come un uomo. Propose “The imitation game”, un test in cui verificare se le risposte di un computer potevano essere “confuse” con quelle di una persona.
L’opinione pubblica è rimasta esterrefatta, nel 1997, quando “Deep Blue”, software creato e addestrato a giocare a scacchi da IBM, ha sconfitto Gary Kasparov, gran maestro e campione del mondo (in carica) di scacchi.
Il software “AlphaGo” (creato dalla società DeepMind fondata da Demis Hassabis e, successivamente, acquistata da Google) nel 2016 ha sconfitto Lee Sedol, campione del mondo di Go (per 18 volte). Nel “Go” per vincere bisogna accerchiare e catturare le pedine dell’avversario e, ad ogni mossa, la complessità del gioco aumenta (al contrario di quello che succede in una partita di scacchi).
Una mossa inattesa di “AlphaGo” (durante la seconda partita della sfida) ha “ispirato” gli esperti a trovare nuove strategie in un gioco millenario (e un po’ stagnante). Torneremo tra poco su questo aspetto interessante.
Nel 2017 AlphaZero, un nuovo algoritmo di DeepMind, ha battuto facilmente AlphaGo. L’aspetto più interessante (e, forse, più inquietante) è che ad AlphaZero non sono state date regole, né un database di partite giocate, ma solo la griglia di gioco e le indicazioni sul punteggio. Il programma ha cominciato a giocare contro se stesso, in tre giorni ha giocato 4,9 milioni di partite e, alla fine, ha battuto AlphaGo con il punteggio di 100 a 0.
Possiamo affermare, quindi, che sì, i computer sanno applicare un’intelligenza logico-matematica (come direbbe Howard Gardner), sono capaci di apprendere delle regole e delle modalità di gioco, di calcolare un enorme numero di opzioni e di scegliere (in base a calcoli statistici) quelle più utili per vincere.
Ma i computer possono essere anche creativi?
Cosa intendiamo per creatività?
Non è facile dare una definizione della creatività. In modo sintetico, possiamo descriverla come la capacità di generare qualcosa di originale (che si discosta, per la sua unicità, da quanto già esiste), rilevante (che assume un valore per chi lo “utilizza”), realizzabile (che può essere prodotto con le risorse attuali), vantaggioso (consente di svolgere una certa attività con maggior efficienza ed efficacia).
La creatività può essere implementata in molti ambiti: nella scienza, nell’architettura, nella cucina, nello sport, nell’organizzazione aziendale, nella creazione di nuovi prodotti o servizi, nei contesti educativi e formativi, in quelli politici e sociali, ecc.
Margaret Boden, docente di Scienze Cognitive nel Dipartimento di Informatica dell’Università del Sussex (GB), nell’articolo “Creativity and artificial intelligence” del 1998, presenta tre declinazioni della creatività: quella esplorativa, quella combinatoria e quella trasformativa.
La creatività esplorativa consiste nell’approfondire un ambito esistente, “esplorare” i suoi confini e le sue potenzialità, senza violarne le regole. In ambito musicale, ad esempio, Johann Sebastian Bach ha esplorato i confini della musica Barocca, senza sconfinare nell’epoca classica (di Mozart e Beethoven). Nella pittura, Renoir e Pissarro hanno rielaborato il modo di rappresentare la natura, senza arrivare all’Impressionismo di Claude Monet. Marcus du Sautoy, brillante matematico inglese, partendo da un gruppo di simmetrie (definite da quattro assiomi matematici) ha esplorato il campo fino a giungere al “Monster”, che ha un numero di simmetrie superiore agli atomi della terra.
La creatività combinatoria è quella che integra elementi differenti creando nuove combinazioni di idee e di concetti. Grigorij Perelman, matematico russo, ha intuito che il modo in cui un liquido scorre su una superficie aiuta a classificare le diverse tipologie di superfici. L’architetta Zaha Hadid, esponente della corrente decostruttivista, ha combinato le conoscenze architettoniche e la sua passione per le forme del pittore russo Kazimir Malevič per creare uno stile unico di edifici curvilinei. In ambito culinario, diversi chef creativi hanno integrato tradizioni gastronomiche di paesi differenti dando vita a menù molto gustosi originali.
La creatività trasformativa avviene in quei rari momenti in cui una nuova intuizione cambia completamente le regole del gioco. Pablo Picasso con il cubismo, Arnold Schönberg con l’atonalità, James Joyce con il modernismo sono alcuni esempi di “momenti trasformativi”, in cui le regole sono cambiate (e sono state abbandonate le modalità precedenti).
Quali di questi tre tipi di creatività può riuscire a realizzare un algoritmo?
Gli algoritmi, oggi, riescono ad essere creativi?
Il matematico Marcus Du Sautoy propone di creare il “Test di Lovelace”: verificare se un computer può generare un’opera creativa, con un processo ripetibile (non frutto di errore), senza che il programmatore sappia spiegare in che modo l’algoritmo c’è riuscito.
A marzo 2016, il romanzo breve “The day the computer writes a novel” ha superato la prima selezione del concorso letterario “Nikkei Hoshi Shinichi Literary Award” a Tokyo. Il romanzo era stato scritto da un algoritmo sviluppato da Hitoshi Matsubara, docente di intelligenza artificiale, e dai suoi colleghi della Future University Hakodate, in Giappone. Il team di scrittori, però, ha ammesso di aver svolto gran parte del lavoro (circa l’80%): ha deciso la trama e il protagonista, ha inserito parole e frasi da romanzi esistenti, l’algoritmo, poi, ha scritto il testo.
Ad aprile 2016 è stato presentato, alla Galerie Looiersgracht60 di Amsterdam, “The next Rembrandt” un dipinto realizzato da un software di Intelligenza Artificiale. Il progetto ha coinvolto i musei olandesi Mauritshuis e Rembrandthuis, la Microsoft, ING e la Delft University of Technology. Il software ha “memorizzato”, tramite un algoritmo di apprendimento profondo, 346 dipinti di Rembrandt. I ricercatori, per oltre 18 mesi, hanno analizzato ogni caratteristica dei dipinti (dimensione degli occhi, proporzione del viso, colori, ecc.) e hanno fornito al software una serie di parametri per realizzare il dipinto. Il risultato è stato interessante, molti visitatori hanno riconosciuto lo stile di Rembrandt anche se diversi critici (come Jonathan Jones) lo hanno definito “una parodia insipida, insensibile e senz’anima“.
Nel 2016, i ricercatori del Sony Computer Science Laboratory di Parigi hanno fatto “memorizzare” tutte le canzoni dei Beatles al software Flow Machines, per fargli “creare” una canzone nello stile del quartetto di Liverpool. La melodia generata dal software è stata consegnata, poi, al compositore francese Benoît Carré (noto con lo pseudonimo Skygge), che l’ha trasformata nella canzone “Daddy’s Car.”
Nel 2017 Gaëtan Hadjeres, per la sua tesi di Dottorato, ha sviluppato (sotto la supervisione di François Pachet e Frank Nielsen) Deepbach, un software IA di apprendimento profondo. Dopo aver fatto “memorizzare” l’80% dei 389 corali (brani simili a inni a quattro voci) scritti da Bach, Hadjeres ha fatto “generare” da Deepbach dei nuovi corali. Il risultato è stato sbalorditivo: il 50% degli ascoltatori è stato tratto in inganno e li ha attribuiti al vero Bach (così come il 45% degli studenti di composizione).
Per quanto sorprendenti, questi esempi ci mostrano che gran parte del lavoro, sia nella selezione delle opere sia nei parametri che le caratterizzano, è stato svolto dalle persone. La “creatività” dei software sembra limitarsi ad assemblare (creatività combinatoria) gli elementi che, all’interno del database di conoscenze, ricorrono come i più “probabili”.
Chi ha paura dell’IA?
L’Intelligenza Artificiale ruberà il lavoro a qualcuno?
Gli impieghi dell’Intelligenza Artificiale sono molti; possiamo individuarne, comunque, due tipologie:
- software che impiegano reti neurali artificiali: motori di ricerca, assistenti virtuali, sistemi di riconoscimento, sistemi di analisi di dati, sistemi previsionali, ecc.
- “prodotti” che incorporano questi software: droni, robot, veicoli autonomi, l’Internet delle Cose, ecc.
Esempi del primo tipo li abbiamo sempre a portata di mano: basti pensare ai suggerimenti che Google, Spotify, Amazon, Netflix (e tanti altri) ci danno, ogni giorno, in base alle nostre scelte e preferenze.
Nell’ambito della medicina, poi, i ricercatori del University College di Londra, in collaborazione con il team DeepMind Health e il Moorfields Eye Hospital, hanno “addestrato” il software (con oltre 15.000 scansioni digitali dell’occhio) in modo che identifichi le malattie più comuni, come la retinopatia diabetica e la degenerazione maculare senile (che colpiscono oltre 100 milioni di persone nel mondo). Il software si è dimostrato capace di diagnosticare correttamente una malattia oculare nel 94,5% dei casi (lo stesso livello di accuratezza di medici esperti).
Altre aziende di successo, come Translated, usano, da anni, software di intelligenza artificiale per agevolare il lavoro dei traduttori (in 194 lingue). Hanno messo a punto, come evidenziano nel loro sito, una “sofisticata combinazione di creatività umana e intelligenza artificiale, che permette di realizzare traduzioni di qualità in tempi brevi”.[Qui la mia intervista alla fondatrice Isabelle Andrieu]
Nel secondo tipo, quello dei prodotti che “incorporano” l’intelligenza artificiale, ci sono le auto a guida autonoma, mini robot (domestici) aspirapolvere e lavapavimenti, robot agricoli capaci spargere i fertilizzanti (solo dove necessario) e di riconoscere le erbe infestanti (e trattarle con prodotti chimici), robot per pulire gli impianti di pannelli solari, ecc.
Negli ultimi mesi nuovi software, come il famigerato ChatGPT, hanno attirato l’attenzione del grande pubblico e reso possibile, a tutti, sfruttare l’intelligenza artificiale per compiti quotidiani come scrivere un articolo, modificare una foto, generare un’immagine, editare un file audio, ecc.
I risultati che possiamo ottenere con software di questo tipo (come Jasper AI, Copy.AI, CopySmith, Midjourney, Craiyon, Dall-e, Soundraw, ecc.) sono interessanti e, nella maggior parte dei casi, sono paragonabili al lavoro “medio” di una persona.
Certo, chi produce contenuti di livello medio dovrebbe preoccuparsi, perché questi algoritmi, nel giro di poco tempo, potrebbero produrre risultati decisamente brillanti.
Più che avere paura di questi software, credo convenga imparare a conoscerli e utilizzarli per ottenere spunti e contenuti “grezzi” da rielaborare e personalizzare (risparmiando tempo ed energie). L’atteggiamento migliore è quello di accogliere gli stimoli dell’intelligenza artificiale, come nel caso dei giocatori di Go con AlphaGo, per migliorare le proprie performance.
Concordo con il prof. Erick Brynjolfsson, docente della MIT Sloan School of Management, quando afferma: “L’intelligenza artificiale non sostituirà la maggior parte dei lavori a breve. Ma in quasi tutti i settori, le persone che usano l’IA stanno iniziando a sostituire le persone che non usano l’IA e la tendenza non farà che accelerare”.
Sono più creativi gli essere umani o gli algoritmi? </h3
Noi umani abbiamo conoscenze e competenze (di vario livello) in molti ambiti, mentre l’intelligenza artificiale ha una competenza molto elevata in un solo dominio di conoscenza (i cui dati sono stati selezionati e preparati da ricercatori in carne ed ossa). Ci sono software molto bravi a giocare a scacchi, ma non sanno fare null’altro, altri sono capaci di guidare, ma non sanno fare altro, ecc.
Competenze eterogenee consentono alle persone di creare collegamenti tra ambiti differenti e ideare soluzioni originali. Gutenberg, ad esempio, ha inventato la stampa a caratteri mobili integrando varie competenze nell’ambito dell’oreficeria, della pittura, della viticoltura.
Gli algoritmi possono diventare sempre più abili nel creare combinazioni di “elementi” (parole, note musicali, immagini, ecc.), ma difficilmente sapranno quali di queste sono degne di interesse.
La creatività umana, poi, è caratterizzata da una serie di fattori cognitivi ed emotivi. Ciò che ci spinge ad inventare “qualcosa di nuovo” è spesso la frustrazione, l’insoddisfazione della situazione attuale, il desiderio di rivalsa, il voler mostrare il nostro valore, ecc.
Anche l’empatia e il desiderio di condividere esperienze ed emozioni hanno un ruolo centrale nella nostra creatività: “Scrivere significa condividere” – afferma Paulo Coelho, scrittore brasiliano – “voler condividere le cose (pensieri, idee, opinioni) fa parte della natura umana”.
Generare nuove idee è anche un processo di auto esplorazione: Jackson Pollock ripeteva che “La pittura è una scoperta del sé. Ogni buon artista dipinge se stesso”.
Per l’abilità di comporre musica, il matematico Douglas Hofstadter afferma, provocatoriamente, che: “Per poter produrre musica come [Chopin o Bach], un ‘programma’ dovrebbe girare da solo per il mondo, farsi strada combattendo nel labirinto della vita e percepire ogni suo momento. Dovrebbe comprendere la gioia e la malinconia di un vento gelido notturno, la brama di stringere una mano amata, l’inaccessibilità di una città remota, il crepacuore e la rinascita dopo la morte di un essere umano. Allora, e soltanto allora, si possono trovare le fonti di una musica che abbia significato”.
E per questo, a mio parere, siamo ancora tranquilli…