E se il prossimo chef stellato fosse un robot? Il cognitive computing entra in cucina (e non solo)
Il Cognitive Computing (CC) è sicuramente tra le tecnologie più promettenti e impattanti dei prossimi anni. Consente ai computer di affrontare problematiche che finora erano appannaggio esclusivo degli esseri umani perché non implicano solamente capacità di calcolo ma anche l’intervento dell’esperienza e della capacità di apprendimento, che rendono gli uomini in grado di fare valutazioni su dati non omogenei tra loro e su situazioni complesse, caratterizzate cioè da ambiguità e incertezza.
Sebbene i computer abbiano capacità e doti in costante miglioramento, il loro punto debole rispetto al cervello umano era rappresentato dall’incapacità di apprendere, di fare esperienza e di ragionare in modo autonomo, elaborando i dati non soltanto in funzione della loro stessa natura e delle informazioni in essi contenuti ma anche in base a ragionamenti autonomi e a esperienze pregresse.
Non si tratta di prospettive fantascientifiche ma di qualcosa che è già realtà, come nel caso di IBM Watson (così chiamato in onore del fondatore dell’azienda Thomas J. Watson) presentato come “un sistema cognitivo che è una naturale estensione di quello che gli umani posso fare al meglio”, in grado di interagire con noi per aiutarci a risolvere problemi complessi e a interpretare la realtà in un modo completamente nuovo.
Watson, una tecnologia cognitiva che tratta le informazioni con un approccio simile a quello degli esseri umani, è in grado di comprendere il linguaggio naturale e di formulare delle ipotesi sulla base dei fatti, imparando da quello che vede e da quello che fa. Watson acquisisce capacità in tre modi: attraverso gli insegnamenti ricevuti dagli utenti, imparando da interazioni precedenti e dall’inserimento di nuove informazioni.
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La cosa più difficile, per un computer, è comprendere che la realtà non è sempre definibile con risultati esatti e con risposte univoche. Al contrario, la realtà è fatta d’incertezza, dubbio, opportunità, strade diverse che possono portare in luoghi lontanissimi tra loro, ma anche nello stesso identico punto, con traiettorie e modalità differenti. Del resto anche per gli uomini è difficile capire che non esistono soltanto il bianco e il nero. Thomas J. Watson era solito dire: «All the problems of the world could be settled easily if men were only willing to think». Pensare, ecco il problema. Pensare e proporre tante soluzioni allo stesso problema, per individuare assieme quella migliore, piuttosto che la più comoda o la più semplice.
Fino ad ora le macchine hanno svolto il loro compito per emulazione, attraverso la programmazione, ma i nuovi computer saranno sempre più autonomi e capaci di ragionare per proprio conto, sulla base dei dati di cui dispongono e con l’aiuto dell’esperienza e dell’apprendimento. Cosa che IBM Watson ha dimostrato di saper fare, già nel febbraio del 2011, battendo Brad Rutter e Ken Jennings a Jeopardy!, un quiz televisivo americano famoso per la sua complessità, per le sue domande a trabocchetto e per i suoi intelligentissimi campioni.
Qualcosa di molto più complesso di quanto già fatto, nel 1997, da Deep Blue, altra macchina creata da IBM, capace di sconfiggere il campione mondiale di scacchi Garry Kimovic Kasparov, che l’anno precedente l’aveva battuta. Deep Blue era in grado di analizzare 200 milioni di posizioni al secondo, contro le tre di Kasparov, ma vincere a scacchi non è sintomatico di una spiccata intelligenza, perché l’esercizio si limita alla velocità di calcolo e alla conoscenza di schemi preconfezionati. A questo gioco le mosse e le strategie non sono infinite, quindi è assolutamente normale che una macchina possa sconfiggere un essere umano.
Ben diverso è il lavoro svolto dai cognitive computer. La vittoria ottenuta da Watson a Jeopardy! è qualcosa che richiede molto più che analizzare mosse e memorizzare schemi, perché implica la necessità di interpretare il linguaggio naturale e i suoi tranelli, i giochi di parole, i sinonimi e gli omonimi, le espressioni gergali, le metafore e tutte le possibili figure che la lingua supporta. Non si tratta di calcolare, ma di comprendere e di esplorare i dati immagazzinati nel tempo, collegandoli ai vari possibili significati, orientandosi tra gli indizi a disposizione. Da notare che durante la sfida Watson non era collegato a internet, ma si è limitato a gestire ed elaborare i dati in suo possesso.
In una recente uscita pubblica di Watson, in occasione dell’evento Alimentare, Watson che si è svolto a Cremona, nell’ambito della Festa del Torrone 2014, Fabrizio Renzi, direttore tecnico innovazione per IBM Italia, ha ricordato che ad oggi «i tre datacenter italiani più grandi, sommati tra loro, hanno una potenza inferiore rispetto a un cervello umano, che peraltro consuma molta meno energia». Certo i computer si evolvono molto più velocemente del nostro cervello, ma gli uomini sono ancora in una posizione di netta superiorità per quanto riguarda le capacità cognitive.
Questo non sminuisce affatto il valore di Watson e del cognitive computing che, allo stato dell’arte, rappresenta già un ottimo supporto in molti contesti, dalla medicina all’energia, passando per ambiti molto meno legati alla scienza, ma non per questo meno importanti nella vita quotidiana delle persone. Nello specifico della Festa del Torrone di Cremona, Watson è stato messo alla prova con la creazione di una ricetta a base di torrone e se l’è cavata egregiamente, proponendo una torta al cioccolato e torrone accompagnata da un particolare gelato alla menta e scaglie di cioccolato.
Watson sta proseguendo la sua attività in collaborazione con il magazine Bon Appétit, nell’ambito del progetto cognitive cooking. I lettori del magazine, preceduti da un gruppo di tester, possono interagire con “Chef Watson” per creare nuove incredibili ricette che sfruttano l’immenso database di ingredienti del computer e la sua capacità di miscelarli in funzione di vari parametri, come l’ispirazione etnica o il mix di sapori.
Il cognitive computing non si propone di sostituire l’intelligenza e il talento degli esseri umani, ma di affiancarli in un processo di comprensione, interpretazione e valutazione che sia quanto più possibile libero dai condizionamenti tipici dell’uomo. Che infatti non si limita a utilizzare i dati e a valutarli in base all’esperienza e alle competenze, ma li contamina con parametri di tipo culturale, con i pregiudizi, con l’umore del momento, le ideologie e le paure, le emozioni e le ambizioni.
È anche per questo che l’uomo ha bisogno del supporto di macchine che, nella loro neutralità, siano capaci di mostrargli tutte le strade e tutte le opzioni possibili, non soltanto quelle più comode o quelle meno rischiose, lasciandoci la possibilità di valutare e di scegliere in modo più consapevole, responsabile ed efficace.