Debito buono vs debito cattivo
Provate a googolare “Debito buono”. L’ho fatto e sono comparsi più di 7 milioni e seicentomila risultati. Da quando il premier Mario Draghi l’ha evocato, “Debito buono” è diventato un’espressione – un sintagma direbbero i linguisti – popolare. Ma nel concreto, cosa significa “debito buono” e come lo si distingue da quello cattivo?
La storia del debito è tra le più terrificanti. La legge emanata a Roma nel IV secolo a.C. consegnava i debitori insolventi alla mercé dei creditori. Il creditore poteva vendere il debitore al mercato degli schiavi, oppure ucciderlo. Come racconta lo storico Tito Livio, soltanto un secolo dopo Roma emanò una legge che introduceva il criterio distintivo di debitore in buona piuttosto che cattiva fede. Un netto miglioramento, anche se i debitori riconosciuti in buona fede venivano comunque chiamati “infames”.
In età medievale le cose non migliorano. Nella Milano del Cinquecento era prevista la pena di morte per il debitore che non avesse concordato entro tre mesi la soluzione del debito. Sorte simile nello Stato Pontificio e nel Regno di Napoli. Bisognerà attendere il secolo dei Lumi con l’intervento di pensatori del calibro del Beccaria per assistere a qualche cambiamento; nel 1779 il granduca Pietro Leopoldo di Toscana abolì il carcere per i debitori in buona fede, prevedendola solo nel caso di dolo. La distinzione tra bancarotta semplice e bancarotta fraudolenta ebbe inizio grazie al codice di commercio napoleonico del 1807 che ispirò prima il codice Albertino del 1842, sia quello emanato nel 1865 dallo Stato unitario.
Il tema del debito, del debitore in miseria costretto in ceppi, è stata fonte di ispirazione per molti artisti. “La carriera del libertino” di William Hogarth, ciclo pittorico composto da otto tele, narra in chiave moralistica l’ascesa e la caduta di un dissoluto che, dissipato il denaro ricevuto in eredità, finisce in prigione per debiti. La vicenda più celebre è quella di Charles Dickens, il più grande narratore di lingua inglese dell’Ottocento. Il padre John nel 1824 fu rinchiuso nel carcere di Marshalsea per non aver onorato un debito di 40 sterline e 10 scellini. Il futuro romanziere aveva solo dodici anni e fu costretto ad abbandonare la scuola e a lavorare in fabbrica. Molti romanzi di Dickens narrano la vita nelle prigioni per debitori. Ne “La piccola Dorrit” il padre della protagonista è imprigionato a Marshalsea..
A quanto pare pochi crimini sono ritenuti più gravi (e più infamanti) del debito non onorato. Senza scomodare Sigmund Freud, è tuttavia impossibile non pensare al percorso psichico che ha condotto la lingua tedesca ad attribuire alla parola “schuld“ due significati paralleli e congiunti: debito ma anche colpa. Forse il sentimento di sospetto che i probi risparmiatori tedeschi nutrono nei confronti dei più disinvolti popoli mediterranei ha origine anche dalla loro severa coscienza luterana: tutto è ammesso, fuorchè il debito?
Come fare quindi a comprendere la differenza tra debito buono e debito cattivo? E più in concreto, come decidere se indebitarsi e per cosa? La dichiarazione di Mario Draghi che definisce come “debito buono” quello che stiamo compiendo con il Recovery Fund – ovvero il Piano per la ripresa dell’Europa – non è una sterile affermazione di principio, bensì qualcosa che va nel profondo e, a ben vedere, riesce a smuovere le cose perché aiuta a ripensare in maniera diversa il concetto di debito.
Per comprendere con esattezza la situazione bisogna considerare che a causa della pandemia si prevede che nel 2021 il rapporto debito/Pil del nostro paese arriverà a sfiorare quota 160%. Più di 25 punti in soli dodici mesi. Un livello di indebitamento tale che, se si fosse registrato solo pochi anni fa, saremmo andati dritti in default: lo Stato non sarebbe stato in grado di pagare le pensioni. Per nostra fortuna non è così. Le ragioni le ha spiegate con la consueta chiarezza il Premier.
Draghi ha rivolto un monito al paese: non si tratta di erogare solo sussidi, che sono solo un aiuto parziale e provvisorio alle categorie più in difficoltà nel corso dell’emergenza, ma di fornire un supporto stabile e di assai maggior valore: qualcosa di duraturo e proficuo. Ha anche spiegato qual è il discrimine, indicando la via da seguire. La differenza sostanziale tra “debito buono” e “debito cattivo” è che il primo arricchisce mentre l’altro impoverisce. Solo una volta afferrato questo concetto si possono compiere le scelte giuste. Non si tratta quindi di limitarsi a verificare se si possiedono soldi sufficienti per ripagare le rate del prestito, né di limitarsi a valutare la convenienza dell’acquisto in termini di prezzo e di tassi di interesse.
Questi ultimi poi non sono un problema perché si prevede che i tassi d’interesse rimarranno a lungo molto bassi; infatti secondo i manuali di macroeconomia il debito è sostenibile quando il tasso di crescita del PIL è superiore a quanto lo Stato spende per prendere a prestito denaro sui mercati. In un altro periodo storico la domanda dell’ente creditore sarebbe stata: “Ce la farà il Paese che sto per finanziare a pagare gli interessi sul debito?”. Oggi questa domanda non ha più senso poiché i tassi sono bassi. Ciò non significa che ogni debito sia sostenibile. Il criterio principale che adottano tutti coloro che determinano il rating al Paese debitorio è la crescita, le possibilità concrete e reali di crescita, e soprattutto l’adozione di un modello di crescita sostenibile. È questa la grandezza cui si guarda con maggiore attenzione oggi nei mercati. Parafrasando il pensiero del premier, dopo “vaccinare, vaccinare, vaccinare”, è arrivato il momento di “crescere, crescere, crescere”.
Ma come si valuta una famiglia, un’impresa, un Paese a cui affidare credito? Secondo una corrente di pensiero non è sufficiente calcolare solo il profitto nell’unità di tempo. Oltre a questo indicatore è necessario calcolare anche quanto valore (una famiglia, un’impresa, un Paese) ha prodotto o, al contrario, distrutto . Cosa s’intende per valore? Qualche esempio: io Stato spendo soldi (presi a debito) per digitalizzare la pubblica amministrazione perché mi aspetto di risparmiare sui costi in futuro e, soprattutto, di sostenere lo sviluppo delle attività economiche dei cittadini; il loro sviluppo genererà maggiori introiti sotto forma di tasse; io impresa decido la costruzione di un nuovo impianto produttivo: investo per avere maggiori ricavi in futuro, oppure investo per migliorare la logistica e la distribuzione riducendo sprechi e costi; io famiglia investo in un impianto fotovoltaico: spendo oggi per risparmiare domani sull’elettricità, investo oggi su un mutuo casa, ed anche mi iscrivo ad un master di alta specializzazione: investo su me stesso, mi promuovo per lavorare meglio e guadagnare di più in futuro.
In conclusione come si distingue il “debito buono” dal “debito cattivo” se non addirittura pessimo? La regola è semplice: i debiti compiuti per costruire valore fanno parte del debito buono; sono spese strategiche che non producono reddito immediato ma valore, cioè maggiori ricavi (o minori spese) in futuro. Appartengono al capitolo “debito cattivo” le spese che non producono valore, compresi quindi i costi dell’inefficienza.
Ovviamente lo Stato deve necessariamente affrontare anche spese il cui obiettivo non è la creazione di valore futuro. Sono i sostegni a categorie disagiate, come ad esempio gli ammortizzatori sociali. La pandemia ha moltiplicato il disagio sociale colpendo aziende e persone. Il debito in quel caso è “inevitabilmente” cattivo, ma obbligatorio in termini di solidarietà e tenuta sociale. È augurabile che questo tipo di spesa possa essere spinto sino alla “compatibilità” con il rientro del debito, altrimenti si rischia di entrare in una spirale che conoscono bene i cattivi debitori: più debito, più interessi (attenzione: non rimarranno sempre a zero…). Compatibilità che non può che essere assicurata dalla crescita. Quest’ultima dipenderà dalle risorse che verranno effettivamente mobilitate dall’utilizzo dei fondi del recovery e dal grado di efficienza nella realizzazione dei vari progetti. Nel medio-lungo periodo avranno particolare importanza “le riforme volte a migliorare l’ambiente economico in cui si svolge l’attività imprenditoriale in Italia”. Come ricordano le considerazioni espresse dalla Banca d’Italia sul PNRR, gli investimenti privati, la crescita delle imprese e l’innalzamento del sistema produttivo dipendono in misura importante da un deciso miglioramento dei servizi prestati dalle pubbliche amministrazioni, oltre agli investimenti destinati alla crescita del capitale umano. Ce la faremo? Se avremo “fame di futuro” certamente sì.