Dart: la prima missione spaziale di difesa planetaria
L’umanità fa le prove generali per evitare quello che, anche grazie a Hollywood, ormai chiamiamo Armageddon: l’apocalisse del genere umano causata da un asteroide. È già successo in passato che una grande estinzione della vita sulla Terra sia stata causata dall’impatto con uno di questi corpi celesti. Ne fecero le spese i dinosauri e tre quarti delle forme viventi, circa 65 milioni di anni fa.
La prima missione spaziale di “difesa planetaria” è decollata il 24 novembre scorso dalla California, quando in Italia erano quasi le 7.30 del mattino. Un razzo Falcon 9 di SpaceX ha spinto la sonda Dart della Nasa verso lo spazio profondo. Una missione dall’importante contributo italiano.
Dart (Double asteroid redirection test) è uno spacecraft piuttosto “semplice”. Ha a bordo un unico strumento, un sistema di navigazione autonomo per orientarsi e sapere dove andare. Soprattutto, cosa puntare. Grande quanto un frigorifero da ristorante, pesante mezza tonnellata e ha un compito: fare da proiettile e lanciarsi a tutta velocità contro un asteroide scelto per questo “test” di impatto.
L’obiettivo è Dimorphos, un piccolo asteroide di 160 metri di diametro che orbita attorno a un compagno molto più massiccio (circa 780 metri), Didymos. Il sistema doppio di Didymos è un “laboratorio” ideale per il test. Colpendo una “luna” (Dimorphos è soprannominato Didymoon), si potrà misurare come è cambia la sua orbita attorno all’asteroide maggiore. E questo potrà essere fatto direttamente da Terra, con i telescopi. Didymos, infatti, è un asteroide classificato come Neo (Near Earth object) e “Potentially hazardous asteroid” (potenzialmente pericoloso). Il nome non deve spaventare: è motivato dalla vicinanza della sua orbita a quella della Terra, ma non ci sono rischi di collisione nel prossimo futuro. Il rendez vous avverrà tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre 2022, a circa 11 milioni di chilometri dalla Terra. Sarà abbastanza vicino da poter essere osservato con grande definizione dai telescopi in tutto il mondo.
Dart dunque mirerà dritto verso Dimorphos, orientandosi con la sua camera e spingendosi con la sua propulsione a ioni. In autunno, la sonda piomberà sulla sua superficie a circa sette chilometri al secondo, 25.000 chilometri all’ora. L’impatto solleverà una nuvola di detriti, l’orbita di Dimorphos attorno a Didymos cambierà, così il suo periodo di rivoluzione. Ma chi farà da “testimone” a questo scontro spaziale? Qui arriva il contributo italiano: la prima missione totalmente made in Italy nello spazio profondo.
Liciacube, testimone oculare
Dart porta con sé una compagna di viaggio. Si chiama Liciacube, è un microsatellite grande quanto una scatola da scarpe, finanziata dall’Agenzia spaziale italiana, e costruita dall’azienda torinese Argotec. Pochi giorni prima dell’ora X, Liciacube si staccherà dalla sonda madre e inizierà a seguirla nell’ultimo parte del viaggio, anche lei navigando in autonomia grazie alle sue camere e ad algoritmi di intelligenza artificiale che la manterranno sulla giusta rotta. Quando Dart si schianterà su Dimorphos, Liciacube fotograferà l’evento a distanza di sicurezza. Soprattutto riprenderà il plume di detriti scaturito dal cratere che Dart provocherà al termine del suo volo. Si tratterà di informazioni uniche, la prima osservazione diretta delle conseguenze di un impatto con un corpo celeste, la cui orbita è stata deviata intenzionalmente dall’uomo. Il team scientifico che studierà i dati di questo evento storico è composto da diversi centri di ricerca e università della Penisola, ed è coordinato dall’Istituto italiano di astrofisica. L’impatto sarà però solo l’inizio. Liciacube uscirà presto di scena, la sua velocità infatti la porterà a perdersi nello spazio, senza possibilità di frenare. E sarà dunque compito dei telescopi terrestri calcolare gli effetti dell’impatto su Dimorphos.
I talenti del doppio asteroide
Come detto, il doppio asteroide è un sistema speciale: passerà molto vicino alla Terra (in termini cosmici), ma comunque a distanza di sicurezza, quasi 30 volte quella che ci separa dalla Luna. Ed è definito, in gergo, un “sistema binario a eclisse”. Significa che dalla Terra è possibile osservare il piccolo Dimorphos transitare davanti al corpo più massiccio di Didymos. Misurando il tempo che intercorre tra un transito e il successivo, sarà possibile conoscere il tempo impiegato per compiere un giro. Oggi il periodo di rivoluzione è di 11 ore e 55 minuti; dopo l’impatto cambierà di qualche minuto, perché, secondo le previsioni, Dart spingerà l’asteroide un po’ più vicino al “fratello maggiore”, e quindi la rivoluzione diventerà più rapida.
Una domanda che in molti si fanno è: “Ma se sappiamo che Dydimos e Dimorphos non sono pericolosi, non rischiamo in questo modo di innescare involontariamente una carambola che li porterà in futuro verso il nostro Pianeta?”. La risposta è no, ed è un altro dei motivi per cui è stata fatta questa scelta. Colpendo il piccolo Dimorphos sarà possibile osservare gli effetti del nostro “lavoro” misurando la sua orbita attorno a Didymos senza alterare la traiettoria della coppia attorno al Sole.
Conoscere il nemico
L’ultimo capitolo di questa prima avventura di difesa planetaria si chiama Hera. È la missione dell’Agenzia spaziale europea il cui decollo è previsto nel 2024 con l’arrivo a destinazione due anni dopo: nel 2026 Hera studierà da vicino gli effetti del colpo inferto in precedenza e la composizione dell’asteroide.
Se tutto andrà per il verso giusto, questo primo test “kamikaze” offrirà una mole di dati cruciale: anzitutto dirà di quanto una piccola sonda come Dart è riuscita a deviare un corpo ben più massiccio. E in base a questi calcoli, potremo iniziare a farci un’idea di quanta velocità, massa e, in definitiva, energia, servono per dare un calcio a qualcosa che in un futuro minaccerà davvero di centrare la Terra.
A dispetto di quanto raccontato nel più celebre dei blockbuster cinematografici sul tema, infatti, il modo migliore per metterci in salvo, se un giorno le agenzie spaziali ci avvertiranno di una possibile, imminente, catastrofe, non sarà quello di sbriciolare il corpo celeste in arrivo con un ordigno nucleare. Rischieremmo infatti di frantumarlo in un grappolo di proiettili in caduta su tutto il globo. La soluzione sarà una spinta calibrata e assestata per tempo, in modo da deviarne la traiettoria quando ancora la minaccia sarà distante, per spingerla via dal nostro tragitto.
Non “se”, ma “quando”
Sono circa 25mila gli asteroidi grandi come o più di Dimorphos. La buona notizia è che i più grandi, cioè quelli delle dimensioni in grado di radere al suolo grandi aree e causare perdite di vite ingenti, se non globali, sono stati scoperti quasi tutti e vengono costantemente monitorati. Si stima tuttavia che ancora più della metà di quelli di taglia “media”, attorno ai 150 metri di diametro, siano da scovare. Nel 2013 l’onda d’urto di una meteora esplosa nel cielo di Čeljabinsk fece a pezzi finestre e vetrate degli edifici per un raggio di qualche chilometro, ferendo più di 1.500 persone. Le sue dimensioni? Circa 15 metri.
Come dicono gli addetti ai lavori, “i dinosauri non avevano un’agenzia spaziale”: per la prima volta una specie terrestre è in grado di fare qualcosa, o almeno provarci. Anche perché, statistiche alla mano, non si tratta del “se”, ma del “quando”.
Gli asteroidi capitano. Secondo i calcoli di Nasa ed Esa, non ci sono reali possibilità che un asteroide grande a sufficienza da minacciare la nostra esistenza ci colpisca per i prossimi cento anni o giù di lì. Ancora “statisticamente”, l’impatto con un meteorite di taglia sufficiente a sterminare l’intero genere umano avviene una volta ogni mezzo milione di anni, uno ogni 100-200 milioni di anni se si parla di pezzi ancora più grandi. Il che non toglie sia importante – vitale – cominciare a prepararsi a una di queste eventualità.
Non si sa mai, confermerebbero i dinosauri.