Cotugno: “Giustizia sociale e ambizione politica, solo così sboccerà la primavera ambientale”
Un salto di qualità. Politico, sociale, economico. Questo serve alla lotta contro i cambiamenti climatici. Che da lotta deve anzitutto trasformarsi in creazione di un mondo nuovo. Un mondo in cui ogni altra battaglia, compresa quella per la giustizia sociale, si raccolga dentro quella per la tutela del pianeta, dei suoi equilibri, delle risorse disponibili. E si lanci dunque oltre il rispetto degli impegni sul taglio dei gas inquinanti o sui risarcimenti per i paesi che già oggi subiscono danni enormi dal cambiamento climatico, passi pure indispensabili ma non sufficienti a resistere su questo pianeta. Nel suo ultimo libro il giornalista Ferdinando Cotugno, 40 anni, profilo singolare del panorama editoriale italiano per la sua capacità di sposare l’animo dell’attivista all’eleganza della divulgazione, prova a piantare i semi di una stagione che dai rischi apra alle prospettive, all’immaginazione di un pianeta diverso, all’entusiasmo di pensarlo (e costruirlo) migliore di quello attuale, sbarazzandoci definitivamente degli ostacoli che oggi mettono a rischio la nostra stessa esistenza come genere umano. “Primavera ambientale. L’ultima rivoluzione per salvare la vita umana sulla Terra” è appena uscito da Il Margine (152 pagine, 13 euro) ed è un’appassionata cavalcata fra prima e dopo, sulla cresta di un’onda di cui forse possiamo ancora governare lo schianto, una rassegna che mette insieme esperienze personali e sguardi ampi, nel tentativo di dotare il movimento ambientalista esploso negli ultimi cinque anni di un indispensabile pensiero lungo. Ne abbiamo parlato con l’autore.
A cosa fa riferimento la “primavera ambientale” del titolo?
“Primavera è innanzitutto un (umile, consapevole) omaggio a Primavera silenziosa, il saggio di Rachel Carson che viene considerato il testo fondativo dell’ambientalismo contemporaneo. C’è anche un riferimento alle primavere arabe, e in generale all’idea di primavera politica come momento di risveglio collettivo. Il clima è il più grande bene comune che esista e la prospettiva di attivarsi per proteggerne la stabilità ha bisogno di un risveglio su una scala ancora più grande di quella che abbiamo osservato con i movimenti nati nel 2018/2019, come Fridays for Future o Extinction Rebellion. Il clima è la piattaforma politica di un cambiamento locale e globale molto più vasto dell’ambientalismo come siamo abituati a considerarlo, non esiste lotta per il clima senza lotta alla povertà, ha detto il neo presidente del Brasile Lula alla COP27, ed è esattamente questo il punto, questo rappresenta la sfida climatica oggi, la possibilità di rimettere mano alla prospettiva di una battaglia contro le disuguaglianze. Per farlo serve una rinascita della politica e da qui l’idea della primavera”.
Stiamo sbagliando molto, è vero, ma qual è il fronte su cui la nostra strategia di mitigazione dei cambiamenti climatici sta fallendo in modo più evidente?
“Se per nostra strategia intendi l’Italia, siamo indietro su entrambe le azioni che compongono una strategia climatica, sia mitigazione che adattamento. La mitigazione è la riduzione del danno, e l’unica riduzione possibile del danno è un dimezzamento (al 2030) e poi un azzeramento (al 2050) delle nostre emissioni di gas serra. Su questo fronte l’Italia è allineata con gli impegni europei, ma è drammaticamente indietro nella loro concretizzazione. L’installazione delle fonti rinnovabili di energia è ferma da quasi un decennio, e il nostro principale errore strategico è continuare a considerare il gas e i combustibili fossili come l’unico possibile motore di prosperità e sviluppo, quando invece si tratta dell’esatto contrario. Le politiche del governo Meloni e prima del governo Draghi rischiano di legarci a questa dipendenza geopolitica e al disastro climatico ancora per decenni. Il gas non solo non è inevitabile, ma ha delle alternative concrete, economiche, pratiche e attuali. Manca la volontà politica di attuarle: in Italia viviamo ancora nella narrazione dei combustibili fossili e tutto il resto, nucleare compreso, è una distrazione. L’errore principale è non aver ancora deciso che la transizione – come fu la vaccinazione nel 2021 – non può che essere la priorità assoluta, a cui subordinare tutto il resto”.
Di cosa ha bisogno il movimento giovanile decollato nel 2018, quello dei Fridays for Future, per riuscire a partorire un cambiamento concreto delle prospettive ambientali? Il tuo suggerimento sembra quello di “conquistare” la politica.
“Bisogna smettere di avere paura della politica istituzionale. L’Italia è il paese europeo che insieme alla Germania ha il movimento Fridays for Future più forte e ampio d’Europa, nel nostro paese si è sempre fatta tantissima politica, e tantissima politica ecologista, ma questa azione politica si è sempre fermata – per diffidenza, per limiti culturali, per ingenuità – alle porte delle istituzioni. Una cosa di cui sono convinto è che i partiti siano un formidabile strumento di azione per il clima, serve un ponte tra l’attivismo e la politica tradizionale, i partiti vanno rivendicati, conquistati e scalati. E se con quelli tradizionali non ci si riesce, ne vanno creati di nuovi. L’Italia è da sempre il laboratorio politico del mondo, e nel suo sconfortante scenario ha un grande vantaggio: in questo paese le cose succedono molto velocemente (come dimostra la storia del Movimento 5 Stelle). Serve un atto di immaginazione politica, l’ecologia non può rimanere solo nelle strade, nei collettivi e in azioni comprensibili ma estemporanee come i blocchi stradali o quelle nei musei. Il mio ulteriore suggerimento è iniziare a costruire una visione del futuro che vada oltre la paura. Conosciamo ormai bene il mondo dal quale stiamo scappando, sappiamo ancora troppo poco il mondo verso il quale stiamo andando. Il movimento per il clima deve attrezzarsi per rispondere alla domanda: che mondo vogliamo? Come sarà la società italiana e globale nel 2050 se ce la facciamo? Un messaggio molto forte uscito prima di COP27 è imagine winning. Immaginiamolo, questo mondo nuovo”.
Nel libro insisti molto sul cambiamento della narrazione, delle parole e degli schemi che usiamo per raccontare un fenomeno di molte misure più grande di quanto possiamo cogliere, delle dimensioni sociali che includiamo nel discorso sul clima, un discorso che contiene e al contempo dipende da quello della giustizia sociale. Dai al tema sfumature emotive e inter-generazionali: la scienza, da sola, non basta?
“La scienza è fondamentale ed è la base di tutto il discorso, ne è struttura e ispirazione. Ma, come dici tu, la scienza da sola non basta. Le scienze dure (la fisica, la climatologia, la glaciologia, la meteorologia) scopriranno ancora tanto, ma dal punto di vista della politica ci hanno detto quello che ci dovevano dire, ci hanno dato tutte le informazioni che ci servivano. Ora servono le scienze sociali, serve l’arte, serve la letteratura, serve un’opera di costruzione di mondo, di cosmogonia dico nel libro, che vada oltre i modelli scientifici, e che ci dica chi vogliamo essere, chi possiamo essere, come possiamo arrivarci. La dimensione sociale è ancora un cantiere agli inizi”.
Cosa esce in questo senso da COP27 in Egitto? Quali sono stati gli interventi più confortanti e quelli più deludenti?
“Le COP sono eventi complessi, privi di sfumature, che dobbiamo imparare a raccontare in modo che sia più articolato di abbiamo vinto o abbiamo perso. L’evento in Egitto ci ha dato la creazione di un fondo per i danni e le perdite da crisi climatica, è una svolta storica, attesa da almeno tre decenni. Non è solo una svolta finanziaria, anche se ci sarà da mettere insieme qualcosa come 500 miliardi di dollari all’anno dal 2030, ma esistenziale: il danno climatico per la prima volta ha un prezzo per chi lo ha causato, questo sarà un incentivo formidabile a smettere di causarlo. Anche se non può essere detto esplicitamente nei documenti diplomatici, è passata l’idea di una traduzione operativa della responsabilità storica. COP27 ci ha detto che non si può rompere il clima senza pagare un prezzo economico. È una svolta storica: da anni si parla di giustizia climatica, cioè l’innesto della giustizia sociale nell’ecologia. La creazione del fondo danni e perdite (i cui dettagli verranno scritti in due anni e non sono dettagli da poco) è la principale traduzione operativa dell’idea di giustizia climatica. Fino a due anni fa, prima di COP26 a Glasgow, sembrava una prospettiva irreale: due anni di proteste e di elaborazione politica l’hanno tradotta concretamente e hanno imposto l’idea. È una cosa enorme, è una delle più grandi vittorie ecologiste di sempre. Le ombre riguardano invece la mitigazione, la transizione ecologica globale ha perso un altro anno, siamo fermi ai risultati, già fragili, di COP26, non abbiamo ottenuto il riconoscimento che i combustibili fossili devono raggiungere un picco nel 2025, non abbiamo ottenuto l’inizio del loro phase down. COP27 conferma l’impegno del G20 di contenere l’aumento delle temperature sotto 1,5°C rispetto all’era pre-industriale, ma non ci offre nessuno strumento concreto per arrivarci. La comunità globale si sta nascondendo dietro la guerra russa in Ucraina, che invece (come ci dice l’Agenzia internazionale dell’energia) dovrebbe essere un formidabile stimolo all’uscita dal fossile. Abbiamo perso un anno anche a causa dei conflitti di interesse del paese ospitante, l’Egitto, che esporta e vuole ancora esportare miliardi di metri cubi di gas. E il prossimo appuntamento replicherà questi conflitti di interesse su una scala molto più grande, dal momento che COP28 del 2023 sarà negli Emirati Arabi”.