Che cos’è Clubhouse, dove l’oralità parla social
La prima, autentica novità nel panorama dei social media o una piattaforma che ha saputo suscitare attese e curiosità in modo strategico coinvolgendo vip e celebrità e lavorando sull’esclusività ma dove molto, se non tutto, rimane da capire? Solo i prossimi mesi chiariranno davvero la natura di Clubhouse, l’app lanciata mesi fa negli Stati Uniti e da poco sbarcata anche in Italia. Nessun testo, zero immagini o video: si entra nell’app, si sceglie una stanza in base al tema o agli utenti che sono già dentro, e ci si mette all’ascolto.
Se si vuole, un po’ come su Zoom, si alza la manina e si prende la parola, venendo eventualmente ammessi al gruppo degli speaker (ma nessuno lo garantisce) e magari diventando moderatori. Con le conseguenze del doversi mettere in gioco. Se invece non ci sono stanze che ci piacciano, se ne possono lanciare in libertà – aperte a tutti, solo al proprio giro o private, dunque su invito – e cercare di raccogliere attenzione e partecipazione. I temi sono secondari, nel senso che si può effettivamente discutere di qualsiasi cosa, con registri alti o bassi, come si farebbe in piazza o in un forbito convegno, ciascuno col suo linguaggio e il suo approccio e già nei primi tempi si trova qualsiasi cosa: dalla stanza muta della meditazione a quella dei negazionisti fino a incontri molto utili per imparare e scambiarsi consigli. Aspetti che dunque danno l’idea dei pregi (ma anche dei difetti, e dei rischi) del nuovo social fondato dall’imprenditore della Silicon Valley Paul Davison e dall’ex dipendente di Google Rohan Seth con il profumato sostegno del potente fondo di venture capital Andreessen-Horowitz, noto per aver scommesso sempre in tempi non sospetti sulle principali creature hi-tech, da Facebook a Skype, da Twitter ad Airbnb. E che ha già ottenuto il risultato di far schizzare la valutazione della nuova creatura oltre il miliardo di dollari.
Clubhouse è formalmente ancora in fase beta, cioè sperimentale (anche per quanto riguarda le garanzie legate alla privacy), anche se è una fase beta che in molti sognerebbero: stando alle stime delle ultime settimane sarebbe già arrivato a cinque milioni di utenti. Tutti possessori di un iPhone. Già: al momento l’app non è disponibile per Android e non è detto che arrivi in tempi tanto rapidi. Non è un fatto secondario: otto smartphone su dieci al mondo sono dispositivi equipaggiati con il sistema operativo di Google. Secondo: l’accesso non è libero ma a dirla tutta neanche troppo complesso. Ci si mette in fila, aspettando che qualcuno dei propri contatti in rubrica eventualmente già iscritti ci tiri dentro, impiegando un suo invito, o si riceve appunto un invito direttamente da qualcuno, seguendo le istruzioni per scaricare l’app e creare il proprio account. Per il resto, la struttura è la solita dei social (si segue e si viene seguiti, si imposta una breve biografia, si scelgono interessi di base e poi l’algoritmo ci darà una mano in base a tutti questi ingredienti) con la differenza che non c’è nulla da pubblicare, niente da scrivere, nessuna clip che parte in automatico: l’esperienza d’uso, a dirla tutta ancora piuttosto acerba e migliorabile sotto molti aspetti grafici e logici, si limita a scorrere le stanze e partecipare, aprirne di nuove oppure esplorare tramite il motore di ricerca interno nuove stanze, nuovi utenti o i club, più o meno l’equivalente dei gruppi Facebook che dispongono di più funzionalità nelle “room” che calendarizzano e propongono, fra cui quelle di registrarle.
In effetti la cifra essenziale – il recupero dell’oralità, ibridando radiofonia tradizionale e podcasting, universo delle chat anni Novanta e astinenza da socialità fisica – è esattamente questa: nelle stanze o ci sei o non ci sei. Non c’è nulla da recuperare o riascoltare in un secondo momento, come siamo abituati a fare su Facebook, Instagram e altrove. Questo alimenta una sconsiderata “fomo”, fear of missing out, nel senso che spinge a trascorrere molto tempo collegati, dentro le varie stanze, saltando da una all’altra, col timore di perdersi qualcosa e, in queste prime settimane, di veder crescere il proprio seguito attestandosi come attivissimi early adopter. Come sempre capita con territori ibridi, c’è chi si muove per costruire seguito e quindi future possibilità di rendite di posizione e influenza. Rimanerne fuori è come sapere che c’è una festa aperta a tutti ma dopo aver deciso di non andare si finisce per trascorrere la serata a macerarsi nel dubbio e nel rimpianto.
Su come, alla ripresa delle normali esistenze, potrà evolversi Clubhouse dopo la sbornia dei primi tempi, tutto rimane da scrivere (anzi, da dire). Per alcuni la fase pandemica non è stata che un trampolino di lancio, visto che un’esperienza più bilanciata e utile di un meccanismo simile sarà quella interstiziale, che in qualche modo si sovrapponga all’attuale ascolto di radio e podcast nei momenti di passaggio, di viaggio o di attesa. Insomma, costruire oggi la base d’utenza che torni utile in piena post-pandemia. Per altri, invece, l’aspetto centrale è concederci proprio in questa fase una piazza d’incontro che ci è in gran parte preclusa dalle misure restrittive, per cui con un ritorno alla vita mobile e iperconnessa Clubhouse dovrà per forza strutturarsi, come già accade nella più matura community statunitense, trovare format, programmare stanze e orari, insomma per assurdo ricorrere alle grammatiche del broadcast tradizionale. È probabile che il punto di caduta si collochi a metà fra questi due sviluppi: cominceremo a usarlo un po’ meno (perché al momento c’è chi ci passa le giornate) e un po’ meglio (perché in fondo quello che vale su Facebook vale ovunque: non è necessario trascorrere ore ad ascoltare perfetti sconosciuti anche se per il momento è tutto, o molto di quello che la piattaforma può offrire).