Circular economy: perché con l’economia circolare possiamo costruire un mondo migliore (e più economico)
Sfruttare di più e meglio le risorse impiegate nei modelli produttivi e di consumo, massimizzando le potenzialità del ciclo vitale di un prodotto.
Ok, la parola è sempre la stessa, direte voi: riciclare. In un certo senso sì, perché recupero e riciclo sono sempre alla base del passaggio da un’economia lineare (ricerca e utilizzo delle materie prime-consumo-smaltimento) a un’economia basata sul concetto di riutilizzo. Ma nell’economia circolare questa transizione va letta in maniera più estesa, staccandosi dalle politiche ambientali tipiche del secolo scorso che vedevano come parte attiva della catena di recycling solo il consumatore finale.
Oggi dobbiamo superare questo schema, con la circular economy andiamo ben oltre l’attivazione del singolo cittadino sulla raccolta differenziata, che negli ultimi decenni si è impegnato a separare le bottiglie di plastica dai rifiuti biologici. Sono le stesse aziende produttrici a entrare in una filiera che ha l’obiettivo di rigenerarsi da sola.
Prendiamo per esempio Ricoh, una delle aziende più conosciute nel settore IT per l’ufficio. Con il Comet Circle e il brand GreenLine si impegna a progettare e costruire stampanti, proiettori e macchine fotografiche in modo che possano essere riciclate e riutilizzate. Entro il 2020 ha intenzione di ridurre del 25 per cento le nuove risorse impiegate per i suoi prodotti, percentuale che potrebbe salire all’87 entro il 2050: una scelta per forza green, perché se domani mancheranno le materie prime ad alto tasso di esaurimento come greggio, rame, cromo, tungsteno (come è probabile che accada) sarà impossibile continuare svolgere la stessa attività.
Quello che convince è quindi il concetto di made to be made again, creato per essere costruito di nuovo. E quello dell’information technology è un settore che può e deve fare progressi, perché sono attuabili. Basti pensare al Google Project Ara, lo smartphone modulabile che prevede di poter aggiornare i singoli componenti senza dover cambiare tutta la piattaforma. Un vantaggio sia in termini tecnologici (una fotocamera con più megapixel o una batteria più performante senza dover attendere nuovi modelli) sia per quanto riguarda l’aspetto green: meno telefonini in discarica e, con un po’ di lungimiranza, incentivi legati alla restituzione quando si decide di sostituire la parte di hardware.
Pensate poi all’impatto che può avere la circular economy nel settore dell’abbigliamento low cost. Un altro esempio già attivo da due anni è quello di H&M, che solo in Italia conta più di 130 negozi: nel 2013 ha lanciato un programma di restituzione in-store in cambio di sconti o scambi sulle nuove collezioni. Il brand svedese di moda collabora con I:CO, società specializzata nel recycling delle materie prime dei vestiti usati, perché come spiegano bene loro «La produzione di una T-shirt utilizza dai diecimila ai trentamila litri d’acqua creando 3,6 chili di emissioni di Co2, attraverso questo sistema di riciclaggio tale quantità si riduce al cinque, dieci per cento». Del consorzio I:CO, che sta per I collect fanno parte anche Puma, The North Face, Levi’s, Forever 21, America Eagle e Skunkfunk, segnale che non si tratta di soluzioni collegabili al green marketing come si potrebbe facilmente intuire, ma che molti marchi credono davvero in un circular future.
Cercando altri brand noti in altri settori, emerge (tra i tanti) quello di Caterpillar, specializzata in macchinari per la costruzione come bulldozer, escavatori e carrelli elevatori. Che cosa ha a che fare il brand americano con la circular economy? Ha iniziato ad assemblare i componenti in modo da essere sostituiti, rigenerati (refurbished, come accade per i prodotti Apple) e riutilizzati su altri veicoli nuovi o di seconda mano. Chi ne guadagna? Caterpillar che risparmia sull’acquisto di nuovi materiali e si apre a un mercato parallelo, il consumatore finale che può acquistare macchinari quasi nuovi e garantiti e ovviamente l’ambiente.
Un approccio industriale che, secondo i dati della Ellen MacArthur Foundation, può portare nei prossimi anni a un risparmio di più di seicento milioni di dollari per le aziende dell’Unione Europea, che corrispondono a più del 20 per cento dei costi attuali legati alle materie prime.
È questo il circolo virtuoso della circular economy che si pone in contrasto con il pensiero lineare diffuso ancora nella maggior parte dei comparti industriali. Ma che presto cambierà assai rapidamente, perché l’altro lato della medaglia (esaurimento delle materie prime, impatto dei cicli produttivi sui cambiamenti climatici e circular competitor sul mercato) spaventa già molti imprenditori. Del resto, non serve fare riferimento a chissà quale voce autorevole di oggi, nel Settecento l’economista francese Antoine-Laurent de Lavoisier aveva già le idee chiare: «Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma».