Che cos’è il “diritto alla riparazione” e perché fa bene all’ambiente
Il diritto alla riparabilità è realtà nei paesi dell’Unione Europea dallo scorso marzo. Sancito dall’inizio dell’anno dal Regolamento 2021/341, prevede l’obbligo per i produttori di grandi apparecchi elettronici come lavatrici, lavastoviglie, frigoriferi e televisori a rispettare determinati criteri di progettazione, per fare in modo che risultino facili da riparare anche al di fuori dei circuiti ufficiali. Non solo: obbliga i produttori a rendere disponibili i pezzi di ricambio, spesso costosi o introvabili specialmente in questa fase di ingolfamento delle catene di approvvigionamento internazionali, e le relative istruzioni per la riparazione. Tutto questo deve valere per 7-10 anni dall’immissione in commercio di ogni modello. Una rivoluzione non da poco, ideata con l’obiettivo di tagliare la mole di rifiuti elettronici contrastando allo stesso tempo il fenomeno noto come “obsolescenza programmata”. Cioè il fatto che alcuni elettrodomestici o dispositivi digitali, dopo certi aggiornamenti dei software o possibili problematiche tecniche, diventino più convenienti da sostituire che da riparare, perché anche volendo non ci si riuscirebbe a prezzi sensati.
Le norme approvate dagli organismi dell’Unione Europea non riguardano ancora dispositivi diffusissimi, in miliardi di pezzi, come gli smartphone. Anche se presto, con ogni probabilità, ci si arriverà. Anche negli Stati Uniti qualcosa, in questo senso, si è mosso: lo scorso luglio un ordine esecutivo (il 14036) firmato dal presidente Joe Biden ha indicato alla Federal Trade Commission di preparare regolamenti utili in questa direzione. Destinati cioè a facilitare le riparazioni di prodotti elettronici da parte di tecnici e laboratori indipendenti. Come si diceva, le supply chain impazzite dal 2020, quelle che mandano in esaurimento immediato i pochi stock di prodotti (vedi il caso delle console di gioco come la PlayStation 5 subito esaurite quando disponibili), hanno fatto il resto. Oltre alla profonda sensibilità ambientale dei consumatori. Per questo, sia all’estero nei grandi gruppi che in Italia, si stanno moltiplicando iniziative che, più in generale, partono dal “right to repair” per guardare a un sistema di “economia circolare”.
Il Self-Service Repair Program di Apple
Apple, ad esempio, già da un paio di anni si era mossa in questo senso (al netto dell’incredibile lavoro sulle materie prime seconde e sulle fonti rinnovabili), estendendo all’Europa il suo “Independent Repair Provider Program”, un programma di formazione gratuito per tecnici terzi destinato a prepararli sulle riparazioni degli iPhone. Ultimamente ha compiuto un passo ulteriore, questo ancora più pesante: si chiama “Self-Service Repair Program” e consentirà a chiunque se la senta, a partire dagli Stati Uniti e a seguire in altri mercati internazionali, di ripararsi l’iPhone da solo. Per ora solo i modelli più recenti, il 12 e il 13, più semplici da smontare, e alcuni modelli di Mac. Più avanti anche il parco di prodotti su cui mettere le msni sarà ampliato. Il tutto senza rischiare di invalidare la garanzia (attenzione: rischiando comunque se dovesse compromettere una qualsiasi componente a causa dei maldestri interventi ma non per il solo fatto di manipolare il telefono).
La Mela ha infatti annunciato che fornirà le parti originali e gli strumenti necessari alla riparazione a chi dovesse farne richiesta. E consentirà anche il download dei manuali necessari per procedere alla sostituzione fai-da-te, anzitutto dei pezzi più richiesti e danneggiati, come lo schermo o il modulo della fotocamera. In definitiva, se un utente non vorrà rivolgersi a un centro autorizzato dalla Mela o a un riparatore indipendente potrà scaricarsi le istruzioni, ordinare parti e strumenti necessari da uno store dedicato, l’Apple Self Service Repair Online Store, e mettersi all’opera. L’unica condizione sarà rimandare indietro alla casa madre le componenti sostituite, ricevendone fra l’altro in cambio un credito per acquisti futuri: per il resto, il prezzo dei ricambi sarà lo stesso praticato ai riparatori non ufficiali. Un bell’affare, se hai qualche competenza di elettrotecnica.
Circola.re, il primo esperimento italiano
Oltre i tradizionali consorzi per il recupero e il corretto smaltimento dei Raee, come ad esempio Erion, Erp, Ecoem o Ecolamp per citarne alcuni, è stato da poco lanciato Circola.re, il primo progetto nazionale per la raccolta di dispositivi elettronici usati a favore degli studenti. A dargli vita, diversi soggetti come la piattaforma riCompro e il distributore energetico Go On insieme ad altre organizzazioni no profit e associazioni come PcOfficina e restart. L’obiettivo della raccolta, lanciata a Milano, Torino e Lodi con l’obiettivo di espandersi in tutto il paese nel corso del 2022, è quello di colmare il “digital divide” dell’hardware recuperando smartphone, tablet e pc usati, rigenerandoli (e dunque spesso anche riparandoli, in questo senso il diritto alla riparazione è fondamentale anche nel contesto di simili iniziative) e donandoli a chi ne ha bisogno. Le stime dicono che la carenza di strumenti informatici, assenti o in condivisione forzata con altri componenti della famiglia, ammonta in Italia a circa 280mila dispositivi. E anche se i tempi della didattica a distanza sembrano fortunatamente lontani, almeno su scala generalizzata, la digitalizzazione della formazione scolastica e dell’amministrazione italiana rischiano di lasciare indietro centinaia di migliaia di famiglie in Italia. Basti pensare al sempre maggior numero di operazioni, come la richiesta di bonus o servizi anagrafici, effettuabili quasi solo attraverso lo Spid, quindi transitando da canali digitali.
Eppure oltre la metà degli italiani (il 52%) conserva in casa, magari dimenticati in un cassetto o in una scatola in garage o in soffitta, uno o più dispositivi elettronici come portatili, tablet o smartphone inutilizzati. Sono strumenti potenzialmente ancora utili ma che invecchiano nella polvere e vedono calare l’efficienza di alcune componenti. Al contrario, potrebbero fare la differenza per molte persone anche dopo piccole riparazioni. Lanciato lo scorso 16 ottobre in occasione della Giornata mondiale della Riparazione istituita ormai quattro anni fa dalla no profit statunitense Open Repair Alliance, Circola.re traccia digitalmente ogni pezzo donato, per garantire massima trasparenza, e distribuisce i dispositivi alle associazioni, che effettuano ulteriori cancellazioni dei dati e che infine dividono smartphone & co. in tre gruppi: i device buoni per la didattica a distanza, che verranno distribuiti a studenti e famiglie in situazioni difficili; quelli palesemente da rottamare, che verranno ritirati dai consorzi dedicati alla raccolta dei Raee dopo la rimozione di componenti riutilizzabili per la riparazione di altri dispositivi; e infine quelli con valore troppo elevato che verranno commercializzati da riCompro, in modo da alimentare un fondo per l’acquisto e la donazione di altri dispositivi.
L’iniziativa di Vodafone
Anche Vodafone, fino a Natale 2021, ha lanciato un’iniziativa per raccogliere e ricondizionare gli smartphone non più utilizzati e dare loro nuova vita, in piena strategia di impatto sociale. Per tre settimane dal 22 novembre chiunque ha potuto portare un vecchio smartphone in un Vodafone Store: se il dispositivo ha un valore residuo Vodafone offrirà al cliente uno sconto sull’acquisto di un nuovo dispositivo nell’ambito dell’iniziativa Smart Change, destinandolo così a nuovo utilizzo. Se, invece, non ne ha pur essendo ancora funzionante, il gruppo offre l’opportunità di donarlo. Avviando così i componenti al ricondizionamento integrale o di eventuali parti a opera dei detenuti del Carcere di Bollate, nell’ambito di un progetto volto al reinserimento nel mondo del lavoro dei detenuti e appunto all’economia circolare coordinato dall’impresa sociale Fenixs.