Branson vs Bezos (e Musk): perché la corsa dei miliardari spaziali non riguarda solo loro
11 luglio 2021: Richard Branson va nello spazio con la missione “Unity 22”.
È probabile verrà ricordata per questo la data di qualche settimana fa. Non perché il magnate britannico, patron del gruppo Virgin, sia stato il primo miliardario a superare l’atmosfera terrestre – la lista di facoltosi extraterrestri invero è stata inaugurata vent’anni fa da Dennis Tito, che nello spazio ci è addirittura tornato una seconda volta, con biglietti da 20 milioni di dollari ciascuna.
Branson però è il primo miliardario a uscire dall’atmosfera a bordo di un velivolo, la Vss Unity, costruito da una sua azienda, la Virgin Galactic, compagnia spaziale fondata nel 2004 con l’obbiettivo di “aprire lo spazio a tutti”. Trainato a 10 chilometri di quota da un aereo appositamente costruito, il primo equipaggio completo di un volo Virgin Galactic, che oltre a Branson e ai due piloti, Dave Mackay e Michael Masucci, ha compreso gli specialisti Sirisha Bandla e Beth Moses, è poi volato fino a 80 chilometri dalla Terra, dove è rimasto per qualche minuto.
20 luglio 2021: insieme con il fratello Mark, con l’aviatrice Wally Funk, una delle leggendarie Mercury 13, e con il diciottenne olandese Oliver Daemen, è Jeff Bezos, fondatore di Amazon e uno degli uomini più ricchi al mondo, a replicare l’impresa di Branson. Anche in questo caso grazie alla propria società spaziale, la Blue Origin, e al di lei veicolo suborbitale ribattezzato New Shepard, un omaggio al primo cittadino americano, Alan Shepard, ad aver raggiunto lo spazio nel 1961.
Se la corsa allo spazio è sempre stata questione di risorse ingenti, oggi è stricto sensu corretto dire sia una gara fra miliardari.
La già ribattezzata “billionaire space race” aggiunge così nuove concrete pagine a un capitolo inaugurato dal terzo nome noto della nuova generazione di imprenditori extra-atmosferici, forse il suo rappresentante più celebre: Elon Musk. Proprio a Musk e alla sua SpaceX sono infatti da accreditare lo stimolo fin qui più potente e rapido a un nuovo approccio alle attività spaziali, guidato dall’iniziativa privata, da un progresso tecnologico non più stimolato da risorse pubbliche e mosso anche da interessi commerciali. Lo testimonia il “servizio taxi” verso la Stazione spaziale internazionale che, inaugurato il 30 maggio del 2020 da Cape Canaveral, ormai permette con regolarità lanci dal territorio statunitense, pratica interrotta per quasi dieci anni dopo la fine del programma space shuttle, nel luglio del 2011.
La maggiore accessibilità alle orbite extra-terrestri è uno dei pilastri di quella che oggi si definisce new space economy, un modo di “fare spazio” che alla “democraticità” accorpa le risorse e la filosofia nello sviluppo dei programmi ereditati dalla Silicon Valley.
Per questo, sebbene le capatine suborbitali di Branson e Bezos siano clamorose, riassumerle parlando di “turismo spaziale” significherebbe non vedere l’iceberg sotto la punta.
Turismo spaziale? Andiamoci piano. Anzitutto cominciando a chiamarlo con un nome più appropriato, per distinguere un orizzonte che maldestramente fa pensare a tizi in gita attorno alla Terra – una prospettiva economicamente marginale – dallo sfruttamento commerciale delle missioni spaziali, orizzonte ben più ampio e praticabile.
Non è un caso che su questa raccomandazione sembrò impostarsi, ormai due anni fa, una conferenza dedicata al tema da parte dello Space economy evolution Lab, o See Lab, dell’Università Bocconi di Milano. Titolo? “The state of the space economy and the new frontiers of tourism in space”.
Tanto che tutti gli interventi in programma, compreso quello di Stephen Attenborough, direttore commerciale proprio di Virgin Galactic, erano stati concordi su un paio di punti. Uno: parlare di sfruttamento commerciale delle orbite basse – quelle fra i 300 e i mille chilometri dalla Terra – rimanda a una complementarità di attori, strategie e approcci nuovi e in crescita costante. Due: di qualsiasi cosa si parli è sempre più chiaro che si sia al cospetto di una rivoluzione capace di riconfigurare sistemi interi e “a cascata” (sulla Terra), dalla gestione dei big data relativi all’osservazione del nostro pianeta – con conseguenze sull’agricoltura, sulla logistica, sulla protezione ambientale – fino alle telecomunicazioni, o al trasporto aereo tutto.
In quest’ottica andrebbe per esempio interpretato anche l’annuncio, risalente a qualche mese fa, del soggiorno di Tom Cruise e del regista Doug Liman a bordo della Iss, dove il duo già rodato da collaborazioni cinematografiche di successo (The Edge of Tomorrow) realizzerà le riprese in microgravità di un film di finzione. Il primo in assenza di peso? No, o almeno non più, visto che da pochi giorni si è saputo che il prossimo 5 ottobre, da Baikonur, la star russa Yulia Peresild e il regista Klim Shipenko anticiperanno sulla Stazione spaziale “Top Gun” Tom per girare un altro live action movie.
Il film, il cui titolo provvisorio sembra una dichiarazione, La sfida, sarà per di più coprodotto da Dmitry Rogozin, il direttore generale dell’agenzia spaziale russa, la Roscosmos. Dura ignorare il sottotesto simbolico, nonché politico, dell’annuncio.
Tant’è, anche nell’era del business spaziale, gli Stati Uniti tornano a confrontarsi con attori pronti a contendersi primati extraterrestri, una platea di concorrenti che, venuto meno il blocco sovietico, oggi registra la presenza indiana, quella degli Emirati Arabi, della Turchia, di Israele e, soprattutto, quella della Cina, fra tutte la più arrembante e solida.
Spazio al commercio
La commercializzazione di un cosmo più accessibile, la cosiddetta space democratization, è, per dirla come al workshop in Bocconi fece Massimo Comparini, amministratore delegato di una delle eccellenze spaziali italiane, Thales Alenia Space, “non solo una rivoluzione tecnologica, ma un game changer, un ecosistema in cui nuove tecnologie agiscono in nuovi ambienti con nuovi modelli di business”.
Poi, certo, la prospettiva di galleggiare fuori dall’atmosfera guardando la Terra da un oblò è allettante per tutti, o quasi. Lo dimostrò, coinvolgendo la platea, proprio Attenborough: “Quanti di voi vorrebbero diventare astronauti?”, chiese rivolto ai presenti. Una mano alzata. “E quanti, sapendo di non correre alcun rischio, farebbero un giro nello spazio?”. Una selva. Ma, appunto, l’enorme fascino della gita fra le stelle, per quanto alla base del business di Virgin Galactic – che ha già venduto 600 biglietti dei propri viaggi da 50 minuti a più di 200mila dollari l’uno – è solo la punta dell’iceberg.
“L’esatta ricaduta economica a lungo termine delle applicazioni spaziali rimane difficile da quantificare”, confermò allora Andrea Sommariva, il fondatore del See Lab, ma è indubbio che gli ambiti coinvolti sembrino non escludere niente di quanto riguardi la nostra vita quotidiana. Si pensi, per esempio, alla disponibilità dell’incredibile mole di dati accumulabile fuori dall’atmosfera e alle prospettive economiche che un’infrastruttura che la gestisca sulla Terra promette già adesso (la costellazione Copernicus, progetto cruciale della Comunità Europea, ne è un esempio).
“Turismo, certo, ma anche addestramento astronautico, scienza e ricerca in microgravità”, aveva elencato Cristoforo Romanelli, direttore marketing e vendite di Altec, altro protagonista dello “space in ItalY” (controllata dall’Agenzia spaziale e da Thales Alenia Space) che punta a inaugurare i primi lanci suborbitali a Grottaglie (Puglia), proprio in partnership con Virgin Galactic.
Traffico aereo… rivoluzione spaziale
Perché lungi da un costoso sfizio, l’orizzonte è ben più vasto. Sempre al convegno in Bocconi, lo ribadì Roberta Fusaro, portavoce per il Politecnico di Torino di Stratofly H2020, un progetto dell’Unione Europea che promette, entro il 2035, di far decollare lo Stratofly MR3, un velivolo stratosferico a basso impatto ambientale e consumi ridotti, capace di portare i passeggeri da Bruxelles a Sydney in due ore e mezzo.
Ma soprattutto in grado di testimoniare come il volo suborbitale abbia le potenzialità per rivoluzionare il trasporto tout court, peraltro un obbiettivo anche di SpaceX.
Questo, nemmeno troppo fra le righe, evocano le recenti (e le prossime) avventure dei miliardari spaziali: il fatto che una compagine di attori nuovi stia ridisegnando il settore e la sua economia. Servizi, prima accessibili solo ai governi e ai giganti industriali, oggi possono essere orientati alle persone e non è un caso se dal 2009 gli investimenti azionari nelle attività spaziali siano cresciuti esponenzialmente insieme con il numero di aziende: oggi il 41% dei top 100 venture capitalist ha uno o più investimenti nel settore spaziale.
No, non è solo turismo spaziale. Almeno non nel senso di qualche eccentrico miliardario a spasso intorno alla Terra. È solo il primo passo di un lungo, lunghissimo viaggio collettivo.