Big tech tra licenziamenti e crisi d’identità, ma la loro crisi non è un male per l’innovazione
Un anno a dir poco complesso per i colossi della tecnologia e del digitale: crolli in borsa legati anche all’aumento dei tassi d’interesse (seguiti comunque da un rimbalzo nel corso dell’estate), crescita ipertrofica del personale che ha costretto a correre ai ripari sui costi, guerre e tensioni geopolitiche, inflazione galoppante, crisi dei microchip e degli approvvigionamenti che non accenna a rasserenarsi. E ancora: sfide, processi, indagini, perfino sorti personali che nel 2023 potrebbero vivere svolte improvvise (ma forse neanche troppo inattese). Eppure i numeri dicono che non è il mercato del lavoro tecnologico a essere in crisi ma, anzi, che le uscite da giganti come Twitter, Meta o Amazon daranno vita a un formidabile rimescolamento di carte, distribuendo competenze di altissimo profilo su una nuova generazione di startup e società digitali, negli Stati Uniti come – in misura minore ma significativa – all’estero.
Cascate di licenziamenti nelle Big Tech
Difficile dire che possa trattarsi di una nuova bolla delle società del digitale come quella che esplose a cavallo del nuovo millennio e che molti ricorderanno come crollo delle “dot-com”. Il settore ha le spalle grossissime e una liquidità all’epoca impensabile. Ma, per stessa ammissione dei fondatori e top manager, alcune realtà sono cresciute troppo e hanno perso la bussola in termini di investimenti, focus e sviluppo. Pensando, durante la pandemia, che la nostra vita sarebbe rimasta per sempre in remoto, di fronte a un qualche tipo di display o addirittura immersi in una realtà virtuale o aumentata. Così, per fortuna, non è stato e il reflusso post-epidemico ha restituito un quadro diverso da quello che Mark Zuckerberg o Jeff Bezos (anzi, il suo successore Andy Jessy), immaginavano. Dunque ecco i tagli: 11mila licenziamenti in Meta, il 13% della forza lavoro, con ricadute anche in Europa e in Italia. Il caso Musk, di cui parleremo fra poco, che ha scarnificato Twitter e ne sta devastando i connotati. E ancora: i 6.700 esuberi in Uber, i 2.800 in Peloton, i 1.200 in Snap e soprattutto i 10mila addii imposti da Amazon, che pure rimane uno dei principali datori di lavoro globali con l’impressionante cifra di 1,5 milioni di dipendenti. Da mesi tagliano anche Netflix e Spotify mentre Apple, che per ora si salva, ha tuttavia congelato i nuovi ingressi: entrerà solo chi serve davvero e in specifici dipartimenti.
Cosa dice lo scenario generale
Eppure, prendendo gli Stati Uniti come riferimento assoluto del settore, l’occupazione nel settore tecnologico cresce: secondo la Computing Technology Industry Association nel corso dell’anno il numero di persone impiegate in questo ambito è salito di 194mila unità, al netto appunto dei licenziamenti registrati soprattutto nei secondi due trimestri. E in fondo anche il mercato del lavoro nel suo insieme, almeno lo scorso ottobre, ha fatto segnare 261mila occupati in più negli Stati Uniti. Cosa significa? Che la crisi, se c’è, è al momento circoscritta a una manciata di pachidermi dell’hi-tech. Che però hanno la capacità di innescare un’onda d’urto importante in grado di ripercuotersi su un bel pezzo di economia globale, a partire dalla svalutazione del patrimonio immobiliare che oggi occupano e potrebbero svendere passando per la sfiducia dei fondi d’investimento, che su queste società hanno investito centinaia di milioni di dollari e che iniziano a non condividerne più la direzione, le strategie e gli obiettivi. Come quelli, nel caso di Meta, dell’onnipresente metaverso.
La sorte degli ex guru del tech
A cavallo fra novembre e dicembre, non a caso, il sito The Leak ha lanciato una piccola bomba: Mark Zuckerberg lascerà Facebook nel 2023, dimettendosi dal ruolo di Ceo. Indiscrezione subito smentita ma che, primo, non ha colto nessuno di sorpresa e, secondo, non sembra – nel frangente dall’annuncio all’intervento della comunicazione del colosso – aver dispiaciuto troppe persone. Meta è da tempo in lotta con alcuni suoi investitori, come il fondo Altimeter Capital, che non ne vogliono sapere di spendere (e perdere) troppi quattrini sul fantomatico progetto del metaverso, a oggi ancora impalpabile e non ritenuto in grado di generare profitti nel medio periodo. I bilanci del social, infatti, raccontano che la divisione che se ne occupa, Reality Labs, continua a perdere dollari: 9,4 miliardi solo nel corso dell’anno che sta per concludersi. Per questo il destino di Zuckerberg sembra segnato: l’ex enfant prodige di Harvard ha scelto di sua spontanea volontà di legarlo a quello del metaverso. Ma i conti dovrà farli (anche) con chi controlla un pezzo della sua azienda. Una cosa è certa: Zuckerberg, Nadella di Microsoft, Pichai di Google, Musk, Daniel Ek di Spotify o Reed Hastings di Netflix, solo per fare alcuni nomi, hanno perso l’aura di intoccabili del settore. E questo è già un salto notevole nel cambiamento dell’approccio dei mercati e dell’opinione pubblica nei confronti di aziende così imponenti che, a suon di dati personali degli utenti, rimodellano costantemente il nostro modo di relazionarci alla realtà che ci circonda, i nostri gusti e i nostri consumi.
La ciliegina sulla torta: il caso Musk
Così come Elon Musk, nonostante si consideri il Re Mida dell’innovazione in virtù del suo passato e del suo presente, dai PayPal a Tesla fino ai successi di SpaceX, dovrà farli anzitutto con gli investitori – freddini sul primo, devastante periodo alla guida di Twitter – per sperare di rientrare dall’affaraccio che è stato costretto a concludere acquisendo la piattaforma dell’uccellino. È vero: ha cacciato oltre la metà dei dipendenti e costretto l’altra metà, pure decimata da addii spontanei, al superlavoro. Twitta in continuazione provocazioni, meme, fantomatici progetti, vuol far pagare una spunta di verifica che confonderebbe ulteriormente le acque della disinformazione rendendo la piattaforma un posto ancora più tossico di quanto già non fosse. L’impressione è che non sappia dove andare, ma che lo stia facendo in fretta. Anche nel suo caso non potranno non esserci sviluppi già a pochi mesi dalla chiusura dell’operazione da 44 miliardi di dollari (pure questa sostenuta da una serie di finanziatori che, conservatorismo a parte, prima o dopo chiederanno conto dei loro soldi): da Bank of America a Morgan Stanley passando per Larry Ellison di Oracle fino alla Qatar Holding. Alla fine i soldi devono tornare al punto di partenza.