“Open”, non solo un sistema ma un vero e proprio stile di vita
Nella mia esperienza di ingegnere ho avuto modo di confrontarmi con diverse modalità di progettazione, in primis la top-down e la bottom-up. Tra le due ho sempre preferito la seconda, anche se derivata dalla prima. Vorrei quindi utilizzare lo stesso approccio per parlare di quello che molti definiscono un movimento, altri un credo, altri ancora una vocazione, ma che più semplicemente è un approccio alla vita e agli altri che viene definito con il termine open.
Per quanto applichi questa impostazione ad ogni aspetto della mia quotidianità, sono stati i singoli ambienti che ho vissuto e che fanno dell’open un caposaldo a formarmi sotto questo punto di vista: l’Open Source, l’Open Hardware, l’Open Science, l’Open Education, l’Open Collaboration.
Ma procediamo con ordine e, con questo articolo, partiamo dal primo (probabilmente il più conosciuto) con l’obiettivo di poter concepire l’ultimo, un mondo aperto e connesso, che all’unisono si attiva per migliorarsi e dove ogni individuo si sente partecipe del prossimo, utilizzando mezzi digitali e non, per essere protagonista.
Per antonomasia il termine open si riferisce a qualcosa che può essere modificato e condiviso in quanto accessibile da chiunque. Banalmente potremmo definire l’open come contrapposizione al closed e l’ambito che sicuramente ha più inglobato il suo significato è quello informatico dell’Open Source. Con il termine source code intendiamo quel lato di un qualsiasi programma informatico che non vediamo, milioni di righe di codice in un linguaggio complesso che hanno, come prodotti finali, i software che quotidianamente usiamo, un po’ come le istruzioni per preparare una portata di cui noi vediamo solo il piatto servito a tavola. Ovviamente come nella cucina, l’obiettivo è quello di migliorare di volta in volta il prodotto, ed ecco che compare una differenza sostanziale tra open e closed.
Prendiamo in esame la costante battaglia tra Windows (software proprietario, closed) e Linux (software libero, open). Sono entrambi sistemi operativi: il primo è realizzato all’interno di un’azienda (Microsoft), il secondo anche con l’aiuto di volontari da ogni parte del mondo. Ipotizziamo che Microsoft abbia 10.000 dipendenti al lavoro su Windows, quindi 10.000 menti, 20.000 occhi. Il software proprietario gli permette grandi profitti e investimenti in ricerca. Se c’è un problema, le 10.000 menti lo risolvono in un tempo X. Linux viene realizzato da un’azienda che ha 1.000 dipendenti, quindi 1.000 menti e 2.000 occhi. Ma non ha brevetti, tutto ciò che questi 1.000 dipendenti fa è reso liberamente consultabile su internet. Quindi un problema, una funzionalità può essere risolta o proposta da ogni persona in qualsiasi parte del mondo che, nel tempo libero (o no), decide di dedicarsi alla cosa. Se c’è un problema, quindi, potrebbero esserci milioni di occhi a vederlo (e quindi ad accorgersene prima) e potenzialmente milioni di menti a risolverlo in un tempo x. Capirete che il tempo x potrebbe essere (e quasi sempre lo è) molto inferiore al tempo X, se l’infrastruttura organizzativa è adeguata.
Nell’Open Source quindi, gli autori rendono il codice sorgente del programma, la ricetta, liberamente disponibile per chiunque voglia vederlo, impararlo, modificarlo o semplicemente condividerlo. Certo, come nel caso del software proprietario, chi usa un software libero deve comunque accettare delle regole, delle licenze, ma queste promuovono la collaborazione e lo scambio, permettendo a chiunque di apportare il proprio contributo in qualsiasi momento voglia. Per capire la portata di questa modalità di progettazione immaginate, per essere sempre in tema culinario, che l’Open sia un insieme di biscotti. Dopo averli preparati possiamo condividerli con gli amici e scambiare con loro anche la ricetta. Ipotizziamo che uno di questi amici sia allergico alle noccioline e che la ricetta per prepararli ne preveda l’uso. L’amico allora la modificherà per adattarla alle sue esigenze e condividerla con altre persone, che avranno ora due varianti della stessa ricetta, magari la seconda addirittura migliore della prima. E magari gli amici, a loro volta, faranno lo stesso e si creeranno altre varianti, migliori della prima e più variegate.
Questo scambio di informazioni è messo in atto da tutti. Anche senza saperlo, chiunque utilizzi oggi internet lo fa grazie a programmi, standard e protocolli nati open e condivisi. Ogni qualvolta un utente al computer visita una pagina web, controlla la posta elettronica, chatta con amici, ascolta musica online lo fa grazie a qualcosa di open, a partire da software liberi quali Linux stesso, Firefox, Blender, WordPress, SugarCRM, Open Office: programmi gratuiti, il cui codice sorgente può essere modificato da chiunque e che offrono performance non sicuramente inferiori alle controparti commerciali.
E probabilmente è per questo, e per molti altri vantaggi che analizzeremo in un prossimo articolo, che il 90% delle aziende Fortune 500 usa software Open Source, tutti i governi dei 50 stati USA usano software Open Source e il 76% di sviluppatori usa software Open Source. Niente male vero?