L'ufficio nel 2016: sempre meno luogo di lavoro, sempre più luogo di incontro
Strano destino quello della parola “agile” di questi tempi. Se la leggi all’inglese, ha a che fare con una metodologia di project management in voga all’estero. Se l’accento è italiano, richiama alla mente qualcosa che, in azienda, vi diranno spesso: «Devi avere la mente agile, essere capace di passare da un progetto all’altro, mettere in campo competenze diverse».
E, se eravate a Milano il 18 febbraio, ci avrete fatto di certo caso: quel giorno è stato dedicato al Lavoro Agile (non solo lì, ma anche a Torino, Napoli ecc…). Con aziende che hanno autorizzato i loro dipendenti a lavorare da casa, postazioni gratuite di coworking, tribune di piscine “trasformate” in uffici (è il caso della milanese Cozzi).
Pensateci bene: 3 accezioni diverse con un unico comune denominatore, il lavoro.
Ma basta una giornata a cambiarlo? A mettere in discussione badge e orari? Non proprio.
Non fraintendetemi: della Giornata del Lavoro Agile sono una gran sostenitrice, ma una sola giornata non è sufficiente. Né lo è un disegno di legge che vuole equiparare – per opportunità, stipendi e carriera – il lavoratore in ufficio e quello da casa. E a poco servono le lodevoli iniziative di aziende che concedono “dall’alto” modalità di smartworking.
Servono azioni davvero “disruptive” che cambino nel profondo la mentalità dei due attori principali coinvolti: le aziende e i lavoratori.
Le aziende devono partire dalle esigenze di questi ultimi e da ciò che conta di più per qualsiasi impresa, quale sia il suo business: raggiungere i risultati previsti nel tempo ipotizzato. Esigenze e obiettivi, che con le 8 ore, in un mondo iperconnesso, c’entrano poco e che devono tener conto del benessere del lavoratore sì, ma anche del suo essere davvero efficiente ed efficace.
Siate sinceri: quante volte avete fatto una riunione alle 19, ma è stata poco proficua? Quante invece avete trovato la vena creativa la notte o all’alba?
In tutto questo giocano un ruolo fondamentale anche le diverse caratteristiche delle persone.
Ne conosco tante che hanno bisogno di andare in ufficio o che lavorano meglio alle 7 di sera “quando non c’è nessuno”, così come altrettante che farebbero meglio se potessero arrivare in ufficio più tardi, altre che, al netto di riunioni e lavori da portare avanti fisicamente con colleghi, preferirebbero iniziare alle 7, altre che si concentrano meglio a casa loro. L’ufficio in questo modo potrebbe trasformarsi in punto di incontro per riunioni, fare contaminazione, formazione e non l’unico luogo deputato a lavorare. O almeno non per tutti.
Fantascienza? Nì. Perché, come dimostra la ricerca condotta da Adecco nell’ottobre 2015, se è vero che il 53,5% degli intervistati non ha mai lavorato da casa, il 57,2% di loro sarebbe propenso a farlo e il 54,3% in una sede più vicina all’abitazione.
Forse dovremmo davvero prendere esempio dai Paesi del Nord Europa. Leggete cosa dice Valerio, 33 anni, programmatore ICT di Milano, ad Amsterdam da qualche anno: «La concezione del lavoro qui è diversa. Non si è grati per il fatto di avere un contratto, al contrario si è consapevoli che in ogni assunzione il guadagno è reciproco. Ecco perché si tende a non regalare ore extra al lavoro e chi lo fa non è ben visto. Ci si chiede piuttosto: non ha una vita fuori?».
«Qui ci si aspetta che tu finisca nelle ore prefissate» continua Anna, insegnante e telemarketing agent 29enne. «Ho un contratto a zero ore (simile al job on call, ndr) ma se ho un problema posso uscire prima, prendere il giorno libero. L’azienda, poi, mi obbliga a fare i 55 minuti di pausa quotidiana che mi spettano se lavoro più di 5 ore. Perché sennò non rendo bene e tutti i pomeriggi faccio 15 minuti di yoga».
Grande spazio dunque viene dato alla persona che è davvero al “centro”. «Sono libero di gestire il lavoro come meglio ritengo sia in termini di orari che di giorni», precisa Valerio. Ovviamente tendendo in considerazione gli obiettivi prefissati.
L’Olanda (come la Svezia che punta sulle 6 ore o la Danimarca che ha inventato la parola arbejdsglæde “felici al lavoro”) ovviamente non è la perfezione, ma nelle parole di Anna e Valerio emergono due concetti importanti: il benessere del lavoratore e la sua capacità di autorganizzarsi. Che chiamano in causa la fiducia, reciproca: da parte dell’azienda e dei lavoratori stessi che devono agire da protagonisti. A partire dalla “mentalità”. Non criticando un collega che fa il part time né andando in contrasto con chi ha una famiglia e quindi arriva dopo o si assenta perché il figlio è malato. E essere convinti in primis che il lavoro si valuta per obiettivi. Ammettetelo: quante volte siete usciti prima dall’ufficio e I colleghi vi hanno detto con aria di rimprovero «Vai già via?».
«In Olanda esiste il papà day, giorno in cui i papà possono scegliere di restare a casa con i bimbi», continua Anna, «ma soprattutto il lavoro è secondario, i tuoi impegni rimangono la priorità e non vivi per lavorare».
E forse il segreto di un cambiamento profondo è tutto qui: trattare il lavoro per quello che è. Semplicemente lavoro.
P.S.: Questo articolo è stato scritto in parte sullo smartphone, in metro. A dimostrazione che quel che conta, in tante occasioni e per tanti lavori, è solo avere la possibilità di lavorare.