5 cose da sapere sul Web3
Utopia, distopia o prospettiva verosimile? Il dibattito sul cosiddetto Web3 è appena decollato ma già divide gli esperti e gli appassionati di innovazione. Il futuro di internet può essere davvero decentralizzato in modo radicale, tornando in mano agli utenti che – condividendo potenza di calcolo e spazio di memoria in cambio di criptovalute o altri tipi di token – possono sostenere quei servizi oggi resi disponibili da colossi come Google, Amazon, Apple e Microsoft? Difficile dirlo, per il momento. Ma, sulla terza incarnazione della rete vale la pena cercare di capirne di più, per non farsi trovare impreparati.
Cosa significa Web3
Se la prima generazione del web è stata quella fiorita a partire dall’inizio degli anni Novanta secondo la logica ipetestuale inventata da Tim Berners-Lee al Cern di Ginevra, e la seconda quella emersa all’inizio dei Duemila con la partecipazione degli utenti a piattaforme come i social network o Wikipedia, la terza incarnazione dovrebbe consistere in un ritorno allo spirito pionieristico della rete. Cioè alla capacità, grazie ai meccanismi di certificazione diffusa della blockchain, di svincolarsi almeno in parte dalla centralizzazione a cui oggi gran parte del web frequentato da utenti comuni è sottoposto ad opera dei cosiddetti “behemoth”, i colossi del digitale.
Qual è il principio al centro di Web3
Senza dubbio il concetto di blockchain. Un sistema di certificazione distribuito peer-to-peer in cui chiunque può farsi nodo della rete e che si pone esso stesso come network di controllo di qualsiasi smart contract venga sottoposto alla sua validazione e registrazione. Troppo grande da poter essere messo sotto controllo, teoricamente un sistema di validazione blockchain fa fuori la necessità di un ente terzo di supervisione. Il libro mastro dei passaggi che costituisce l’infrastruttura delle criptovalute si predispone, come migliaia di esempi testimoniano a partire dagli “nft”, alla certificazione di qualsiasi transazione: nel Web3 del futuro, ma anche del presente, in cambio della condivisione di spazio sui propri hard disk e server gli utenti possono per esempio ricevere criptovalute e offrire per esempio servizi di memorizzazione remota. Già accade su SaladCloud o Filecoin.
Centralizzazione Vs decentralizzazione
Il punto di partenza, dal sapore tecno-politico, è quello di liberarsi dal predominio, dal controllo e talvolta dalla censura dei colossi del settore per costruire un’infrastruttura paritaria, comunitarista quasi, in grado di garantire a tutti molti dei servizi attuali ma senza il ricatto dei dati e dei costi. Per molti però la prospettiva è mal posta: i sistemi di blockchain costano piuttosto cari in termini di dispendio energetico, le applicazioni in questo momento disponibili sono ancora troppo complesse da usare per l’utente comune e non è detto che tutti condividano la stessa considerazione di un approccio disintermediato. Per altri, ancora, la sbornia da “nft” non è altro che una speculazione, non il futuro della creatività ma una bolla poco diversa da quelle finanziarie tradizionali dalla quale è difficile sperare che possa nascere l’internet del futuro. Non è un caso che sul Web3 stiano investendo i soliti colossi del “venture capital” come la californiana Andreessen-Horowitz: che piega prenderà davvero il nuovo modello del web? Quella dei venture capitalist che, dopo aver sostenuto l’esplosione di Facebook & co, vogliono arricchirsi ancora di più con la finanza decentralizzata? Gli investimenti e i fondi che si occupano del tema stanno infatti crescendo a ritmi scatenati.
Decentralized autonomous organization
I veri attori di questa rete del futuro sarebbero le Dao, cioè le “decentralized autonomous organization”, organizzazioni decentralizzate che funzionano senza un organo centrale incaricato della loro gestione. Si tratta di un’applicazione pratica degli smart contracts che associa ai detentori di token la possibilità di effettuare delle scelte ma senza che nessuno sia superiore a qualcun altro. Sono gli smart contract a supervisionare il meccanismo di fondo in modo trasparente e immutabile, mescolando contributo umano e automatizzato e alla fine gestendo un servizio (nel nostro esempio, un sistema di memorizzazione cloud di file e documenti) senza ulteriori necessità, certificando reciprocamente ciò che avviene. Come se il server centrale, o il notaio, fosse esploso, diffuso nelle operazioni di chiunque partecipi.
Proprietà e identità
Chi supporta il Web3 mette in risalto anche un altro concetto: quello di “ownership”, cioè di proprietà. Intorno al quale, fra l’altro, ruotano i prezzi folli visti negli ultimi mesi con gli “nft” di maggior successo. Cioè un mondo in cui chi crea al contempo possiede: non sta più fornendo contenuti per altri ma mette a disposizione memoria e incassa un tornaconto; produce un’opera d’arte digitale e la mette in vendita sotto forma di “non-fungible token” saltando ogni intermediazione; inventa un sistema digitale che risponda a un qualche bisogno, anche velleitario, ed è in grado di strutturarne il funzionamento in modo trasparente. E soprattutto, non ha bisogno di mille credenziali: porta sui vari servizi un’identità digitale unica, per quanto anonima se slegata da ogni ente certificatore, con cui partecipare (e non solo fruire) a ogni servizio.