5 cose che abbiamo imparato dalla sentenza Theranos
Lo scorso 3 gennaio il tribunale federale di San Jose, in California, ha condannato la 37enne imprenditrice Elizabeth Holmes per alcuni capi d’imputazione frutto di una lunga indagine e di un’incriminazione arrivata addirittura nel 2018. Per la precisione la donna è stata condannata per quattro accuse su 11, legate alle complesse vicende della sua “startup dei miracoli”, Theranos. Una società, fondata quando aveva 19 anni, che prometteva di rivoluzionare il mondo della medicina, nello specifico della diagnostica. Tutto grazie a un dispositivo per le analisi del sangue battezzato Edison a cui sarebbero bastate poche gocce di materiale ematico raccolte dai capillari del polpastrello per ottenere oltre 200 valori e parametri, fra cui alcuni molto importanti come la positività all’Hiv o ad alcuni marker tumorali. Senza ovviamente sottoporsi a lunghi prelievi nelle cliniche o nei laboratori specializzati ma, per esempio, da effettuare velocemente nei corner attrezzati di qualche supermercato. Peccato che Edison fosse una truffa.
Un processo alla Silicon Valley
L’entità delle condanne sarà resa nota fra qualche tempo. Nel complesso, Holmes rischia venti anni di carcere per ciascuno dei capi d’accusa, da scontare però in contemporanea. In parte, infatti, le letture che sono state date del processo iniziato lo scorso settembre e poi della sentenza di dicembre ruotano intorno a una sorta di resa dei conti con gli anni dell’ubriacatura da startup della Silicon Valley. Quando – in molti casi e nonostante la batosta delle “dot com” di fine anni Novanta – bastava un po’ di carisma e qualche finanziatore di un certo calibro per pompare un’idea senza elementi concreti e ancora prima che si disponesse di un prototipo funzionante. Insomma, la smania (e a volte la frode) di vendere un prodotto o un servizio prima che fosse finito contando sull’ottimismo a ogni costo, sulla superficialità e sulla voglia di arricchirsi in fretta. Una condotta certificata perfino dalle dichiarazioni del giudice, Edward J. Davila. Quello di San Jose è stato dunque un procedimento che ha fatto i conti con la sbornia delle storie da “garage” di quel pezzo di California – non a caso Holmes fondò Theranos proprio a Palo Alto – che ha strumentalizzato le irripetibili vicende umane e industriali di alcune grandi aziende come Microsoft, Apple o Amazon per alimentare autentici bidoni.
Diffidare delle imitazioni
L’ufficio arredato come nei gusti di Steve Jobs con le sedie Le Corbusier in pelle nera, le maglie sempre nere dolcevita, il tono di voce che (sostengono alcuni) fosse volutamente tenuto molto basso rispetto a quello naturale per garantirsi maggiore autorevolezza negli incontri con manager, investitori e autorità. Gran parte della scalata di Theranos verso una valutazione da 9 miliardi di dollari raggiunta nel 2015, e quasi un miliardo di finanziamenti, si legò senza dubbio al carisma della sua fondatrice e alla scientifica costruzione della sua immagine pubblica, in quegli anni celebrata dalle maggiori testate di business e lifestyle proprio come quella di una “nuova Steve Jobs”. Ovviamente, di Jobs ne è esistito solo uno e la stampa ha contribuito non poco ad alimentare l’epica di una nuova formidabile scalata. Senza interessarsi, proprio fino a quell’anno, di capire se Edison funzionasse davvero.
Provare per credere
Per un certo periodo Theranos ha infatti utilizzato macchinari per le analisi del sangue tradizionali, acquistati da altre aziende, fornendo come campioni di analisi poche gocce di sangue dei pazienti coinvolti negli studi. L’obiettivo era ovviamente reggere la sceneggiata di un dispositivo che si sapeva non funzionante. E ricavandone ovviamente risultati del tutto sballati. Nessuno ha mai messo davvero alla prova Edison e risulta infatti sorprendente segnalare che proprio nel marzo 2015, pochi mesi prima dell’inchiesta del giornalista John Carreyrou pubblicata sul Wall Street Journal che sollevò i primi dubbi sulla creatura di Holmes, la Fda (Food and drug Administration statunitense) concesse al macchinario la prima e unica autorizzazione per la diagnosi del virus Hsv-1, l’herpes simplex. Un via libera sconvolgente, visto con gli occhi di oggi, evidentemente frutto di dati errati e di una verifica superficiale delle caratteristiche del macchinario.
La differenza fra fallimento industriale e truffa
La difesa di Holmes ha puntato molto, oltre che sui tossici rapporti della fondatrice col presidente di Theranos e per un periodo compagno di allora, il 56enne di origini pachistane Ramesh Sunny Balwani, anche sull’idea che la vicenda del gruppo non fosse legata a una frode deliberata ai danni di investitori e partner, oltre che pazienti, ma a un naturale fallimento industriale. Provarci non significa truffare, questa la tesi in tribunale. Peccato che diverse testimonianze abbiano sbugiardato questa già fragilissima linea difensiva: diversi scienziati ed esperti di Theranos, impiegati nei laboratori dell’azienda, hanno spiegato di aver più volte tentato di allertare la fondatrice e il management sui pessimi standard diagnostici di Edison. Senza ascolto, ovviamente.
L’importanza della trasparenza, anche (e soprattutto) per le big del tech
Uno degli elementi più controversi dell’indagine, sottovalutato anche dalle cronache, riguarda il database contenente dati e risultati dei test dei pazienti sottoposti negli anni alle analisi da parte di Theranos. Nel 2018 il gruppo ne fornì una copia crittografata alla procura, salvo cancellarlo definitivamente dai server della società. Gli inquirenti impiegarono troppo tempo a prenderlo in considerazione, col risultato di non riuscire a individuare le chiavi per la decodifica e dunque ad accedere e a utilizzare le informazioni ai fini processuali. Secondo la procura, quella mole di test avrebbe consentito di provare l’enorme tasso di errore dei sistemi di analisi del sangue. Quei dati, così come gli algoritmi di alcune grandi piattaforme che oggi orchestrano la nostra vita, dovrebbero essere accessibili – almeno in una certa misura – da parte di osservatori qualificati.