“10 idee per salvare il pianeta”: perché il privato è pubblico. Anzi, è un bene pubblico
Transizione. Un termine entusiasmante e al contempo inquietante. Si cambia stato, condizione, situazione. Si abbandona una terra nota, ma dove ormai non possiamo attardarci oltre, verso una ignota ma ricca di prospettive. Fra le altre formule Treccani definisce la “transizione”, dal latino “transitio, transitionis”, come il “periodo che segna il passaggio da una civiltà a un’altra, durante il quale si maturano nuove forme sociali”. Le transizioni a cui il pianeta è chiamato dall’urgenza della crisi climatica e dal dolore delle diseguaglianze sociali sono diverse ma intrecciate, come intrecciate sono le due sfide degli ecosistemi naturali e umani: sono quella digitale e quella ambientale. Non è un caso che il governo presieduto da Mario Draghi, il terzo della tribolata XVIII legislatura, un esecutivo di unità nazionale chiamato a salvare il paese dall’emergenza pandemica e socioeconomica, conti fra i suoi ministeri anche quelli dedicati proprio all’”innovazione tecnologica e transizione digitale” e alla “transizione ecologica”. Quest’ultimo, fra l’altro, ricco di deleghe e primo beneficiario dei fondi europei legati al programma continentale Next Generation EU. Meglio tardi che mai: in Francia un simile dicastero esiste dagli anni Settanta, anche se solo di recente ha assunto questo nome.
Una questione geopolitica
La transizione ecologica è dunque un affare anzitutto geopolitico, che tocca cioè le strategie pubbliche e i modelli di produzione, distribuzione, consumo, smaltimento e riutilizzo seguiti e imposti alle organizzazioni private ma anche gli equilibri, le rendite e gli investimenti internazionali che attori di ogni tipo perseguono per i più diversi obiettivi. Si tratta di una dinamica epocale che impone di ripensare alle fondamenta il percorso che ci ha condotto a un pianeta caldo e affollato, che entro il 2050 conterà oltre 200 milioni di “rifugiati ambientali”: persone costrette a scappare dalle proprie terre ormai inabitabili, inospitali, finite sott’acqua o sotto la sabbia, bersagliate da squilibri meteorologici prima sconosciuti o al centro di dispute per le risorse energetiche. Una strada che non tutti, proprio per quegli interessi e quelle rendite, vogliono ancora imboccare.
Dal clicktivism alla liberazione dall’ambientalismo radicale
Come dimostrano anni di mobilitazioni civiche e ambientaliste, soprattutto giovanili, la geopolitica è personale. Le sfide che hanno scalato l’agenda delle priorità del pianeta, riportando gli Stati Uniti negli Accordi di Parigi col salvifico arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca o collocando le spese “green” al vertice delle voci su cui impiegare i fondi per la ripresa post-pandemica da parte della Commissione Europea, nascono cioè in egual misura dalla concretezza e dalla teoria. In questo secondo caso, dalla testardaggine dei tanti e delle tante Greta in giro per il mondo, le cui battaglie liquidate all’inizio come velleitarie sono state tragicamente accompagnate dai fatti, che come sempre parlano da soli: lo scioglimento dei ghiacci, i ribaltamenti climatici, l’estinzione di specie e interi ecosistemi, i fenomeni estremi un tempo rarissimi e oggi incredibilmente più frequenti e devastanti a latitudini sconosciute, le minacce ai sistemi di sussistenza locali, la guerra per l’acqua e le materie prime.
Perché siamo tutti ambientalisti: non serve la tessera di un’associazione
Mai come in questi anni, insomma, ci siamo resi conto che il privato è pubblico. Anzi, è un bene pubblico. Nel senso che contiene in sé, nelle direzioni che può imboccare, un potenziale di positività distribuito allo stesso modo fra le posizioni di principio e gli esempi pratici. Probabilmente il salto rivelatore di questi nostri anni d’angoscia e sconcerto, quando non ci rimaneva altro che affidarci al “clicktivism”, è stato questo: dare corpo alle posizioni di principio liberandoci dal ricatto dell’ambientalismo radicale. Ormai siamo tutti ambientalisti, nel senso che le informazioni a nostra disposizione sono tante e di tale qualità da coinvolgerci senza scuse. Dall’opposizione al fast fashion alla sempre più profonda attenzione per le condizioni del bestiame negli allevamenti intensivi, dalla necessità etica di mettere i propri soldi sui brand che garantiscono per tutta la loro filiera condizioni sostenibili in termini di approvvigionamenti e forza lavoro alla sensibilità per quello che finisce nei nostri mari, nelle nostre terre e quindi sulle nostre tavole, e dentro le nostre cellule: stiamo scoprendo che non occorre la tessera di un’associazione per dare il proprio contributo. Cioè per fare del bene pubblico. E finire dunque per influenzare, una scelta dopo l’altra, un acquisto dopo l’altro, quelle politiche pubbliche da cui dipende la salute individuale, della propria comunità e globale.
Piccoli grandi eroi del proprio universo famigliare
Ciononostante, per quanto l’avanguardia sia ormai numerosa, ciascuno di noi rischia spesso di impiegare mesi, se non anni, a realizzare i modi specifici con cui dare forma a questa libertà responsabile. A fare quel bene ricostruendo, pezzo dopo pezzo, la propria routine quotidiana in modo che sia un po’ meno impattante e un po’ meno traumatica per sé stessi, per l’ambiente e per gli animali. Oppure a non farsi fregare dal “greenwashing”, dal marketing di superficie che colora tutto di tinte pastello calpestando quella responsabilità che ormai mettiamo naturalmente in circolo. Un libro appena uscito, “10 idee per salvare il pianete (prima che sparisca il cioccolato)”, firmato da Letizia Palmisano e Matteo Nardi, prova a velocizzare questa transizione, perché il tempo stringe e non solo le generazioni future ma anche quelle attuali hanno una domanda ormai aggiornata e bruciante rivolta non ai padri e alle madri ma ai fratelli maggiori: non più che cosa avete fatto per noi, ma cosa state facendo adesso. Non servono spesso risposte eroiche: ciascuno di noi può essere un piccolo eroe del proprio universo famigliare, aprendo gli occhi al mercato rionale, nei rapporti di ogni giorno, prima dell’ennesimo clic su internet. Palmisano e Nardi ci guidano, prendendoci per mano, in questa trasformazione quotidiana: dalla spesa al movimento, che è vita, dalla crescita al lavoro, dalla scuola all’alimentazione. Ci danno le istruzioni per fare della nostra piccola vita una dimensione che abbia un grande senso. Qui e ora: il vecchio mondo è scaduto ma per fare il nuovo non servono supereroi. Serve la forza tranquilla di nuovi modelli.