Web reputation: i luoghi digitali vanno occupati, presidiati e governati
Tratto dal terzo capitolo del testo Internet e Reputazione aziendale, a cura di Stefano Previti (Utet Giuridica, 2016)
Una volta, non molto tempo fa, un mio carissimo amico mi disse: «Oscar, sappi una cosa: nel web, la reputazione o te la fai o te la fanno!». «Parole Sante», risposi io – senza però che avessi ancora chiara la concreta consapevolezza della complessità necessaria per arrivare al risultato di una perfetta reputazione.
Non so se esista l’azienda perfetta in tal senso; quello però che posso dire con certezza è che un’azienda oggi non può esimersi da questa prima presa di coscienza.
A mio avviso questa prima idea (o regola, se preferite) deve necessariamente orientare tutti i passi successivi della strategia in materia web reputation.
Vero è che tutti i luoghi – a partire da quelli digitali – vanno occupati, presidiati e in qualche modo governati. Vero altrettanto è che questa attitudine deve progressivamente portare un’azienda ad impadronirsi di quello spazio che ormai ci appartiene. Vero infine è che per attivare un processo simile a quello che sto descrivendo, un’azienda, come qualsiasi tipo di organizzazione, deve necessariamente pianificare le proprie azioni, investire, coinvolgere le funzioni appropriate e assumere profili capaci di educare l’organizzazione stessa verso una nuova visione prospettica ma soprattutto verso nuovi comportamenti.
Bisogna dunque riflettere attentamente. E questo atto della riflessione diventa essenza fondamentale del processo cognitivo e della partecipazione al raggiungimento di un obiettivo comune.
Una riflessione, infatti è – come indica la parola stessa – un “atto conoscitivo mediante il quale, lo spirito, ritornando su sé stesso, prende coscienza delle sue operazioni e dei suoi caratteri”.
Il semplice fatto di occuparsi della propria reputazione aziendale non significa automaticamente l’essere capaci di farlo. È necessario costruire il proprio orientamento nel tempo, investire in risorse capaci e preparate, avere coraggio nello sperimentare, rendere il tema sempre più centrale all’interno delle proprie organizzazioni.
I casi di crisi reputazionale si contano a decine negli ultimi anni; senza andare lontano ricordiamo certamente tutti le vicende di Barilla e di Moncler, generate sui media tradizionali (la prima in radio, la seconda in TV) e sfociate in epiche conversazioni online. Vicende che hanno avuto un impatto per i brand anche a livello internazionale e che hanno già visto la produzione di numerose analisi e teorie su come siano state affrontate tali crisi dal management e dagli organi di comunicazione delle aziende.
Non voglio aggiungere un ulteriore punto di vista su casi già ampiamente dibattuti, preferisco invece citare due casi a mio parere fondanti per portata dell’impatto sui marchi coinvolti, sia in termini mediatici che di business.
Domino’s pizza
Con i suoi oltre 11.000 punti vendita nel mondo, Domino’s Pizza è oggi la seconda catena di pizzerie degli Stati Uniti.
Quotata sul Nyse dal 2004, si trova ad affrontare nella Pasqua del 2009 una crisi che le sarebbe costata il bene più prezioso per un’azienda: la fiducia dei suoi clienti.
Il 12 aprile 2009, la domenica di Pasqua, due dipendenti di un punto vendita del North Carolina decidono di caricare su YouTube un video in cui, sul posto di lavoro, utilizzano il cibo in una maniera non esattamente rispettosa delle norme igieniche che si addicono a un ristorante. Cibo che sarebbe poi stato consegnato ai clienti.
Domino’s si accorge del video solamente il giorno dopo, quando la notizia viene pubblicata sul blog consumerist.com, riuscendo solamente nel tardo pomeriggio a identificare il punto vendita coinvolto. Nelle 24 ore successive le conversazioni su twitter hanno acquisito rilievo, contribuendo alla diffusione del video che il giorno successivo avrebbe superato il milione di visualizzazioni.
È solo il 15 aprile, 3 giorni dopo la pubblicazione del video, che Domino’s fa sentire la sua voce sui social tramite un video del CEO e la creazione di un account twitter dedicato.
L’estrema lentezza di Domino’s nel reagire e prima ancora nel rilevare cosa stesse accadendo – e dare il giusto peso al fenomeno – è costata a Domino’s un calo delle quotazioni del 10% in 7 giorni, ma soprattutto il crollo del sentiment dei consumatori: il 65% delle persone precedentemente favorevoli aveva completamente ribaltato la propria opinione.
Domino’s ha compiuto degli errori, è evidente. A partire dal mancato presidio del parlato sui social media, con relativa sottovalutazione del fenomeno in corso che invece proprio twitter e YouTube hanno amplificato, fino all’assenza di un piano anti-crisi. Se a tutto ciò aggiungiamo l’assenza di chiare policy verso i dipendenti è palese che prima o poi qualcosa sarebbe accaduto.
Da tutto ciò Domino’s ha tratto una lezione che è stata in grado di fare propria e sfruttare per mettere in discussione molto del suo modello, dalla formazione del personale fino alle ricette.
A dicembre dello stesso anno sono stati presentati i nuovi prodotti completamente “ridisegnati” grazie a centinaia di focus group con i clienti, seguiti da una campagna massiva da 75 milioni di dollari chiamata Pizza Turnaround.
United airlines
La storia di Dave Carroll e della sua chitarra è forse la più nota e longeva quando si parla di reputazione al tempo dei social media. Comincia il 31 marzo del 2008 e vede coinvolta la United Airlines, una della maggiori compagnie aeree americane e la più grande al mondo in termini di destinazioni servite, quando Dave e la sua band di musica folk si imbarcano per un volo da Halifax verso Chicago.
Al momento dell’imbarco dei bagagli la band assiste con i propri occhi al trattamento non del tutto consono che gli addetti stanno riservando ai costosi strumenti musicali: tra questi la chitarra costruita su misura di Dave, dal valore di $3.500. La sua preoccupazione è immediata così come la segnalazione alle hostess: comincia qui il calvario che, come vedremo, procurerà non pochi problemi alla compagnia aerea e una (probabilmente) inaspettata fama a Dave.
Il supporto che Dave riesce a ricevere dal personale della compagnia va dall’indifferenza delle hostess al vero e proprio scarica barile tra Chicago, Air Canada, Halifax, New York e di nuovo il servizio clienti in India, con una serie di reclami inviati e mai registrati e numeri di telefono improvvisamente irraggiungibili. Sei mesi di inutili attese al termine dei quali Dave decide di far riparare la chitarra a proprie spese sostenendo un costo di $1.200.
Ma la vicenda continua e dopo 9 mesi dall’incidente finalmente la compagnia comunica a Dave che, nonostante riconoscano l’accaduto, la sua richiesta di risarcimento non poteva essere accolta, offrendogli un risarcimento in vouchers pari a $1.200. Offerta prontamente rifiutata da Dave che chiude la conversazione informando che avrebbe raccontato la storia pubblicando tre canzoni sul YouTube.
Il 6 luglio del 2009 Dave pubblica il primo video della trilogia: è un boom. Nelle prime 24 ore registra 150.000 visualizzazioni che diventano oltre mezzo milione in 3 giorni. La settimana successiva risultava prima nella classifica dell’iTunes Music Store. Media tradizionali come FoxNews e CNN si accorgono del fenomeno e ne danno ulteriore risalto consentendo al video di superare le 5 milioni di visualizzazioni in un solo mese. Ed è proprio nelle prime quattro settimane che United Airlines sconta le maggiori conseguenze della vicenda, con un impatto sulle quotazioni del titolo che perde il 10% in un mese con un danno per gli azionisti pari a circa 180 milioni di dollari.
Dal canto suo, United Airlines tenta di stemperare la situazione, dapprima attraverso il contatto telefonico da parte del managing director che porge le proprie scuse riconoscendo che la cosa poteva essere gestita meglio e in tempi più brevi, successivamente offrendo un rimborso di $3.000. Offerta che Dave rifiuta e che la compagnia decide di donare al Thelonious Monk Institute of Jazz come gesto di buona volontà che, naturalmente, non genera alcun effetto sulla vicenda accaduta.
L’eco dei video non si ferma e la pubblicazione della seconda e terza canzone unitamente alle continue menzioni sui media, tra cui il Time, CBC/CNBC, NBC e molti altri anche internazionali, hanno reso questo caso un evergreen, al punto da generare numerose richieste di Dave per interventi e speech all’interno di convegni. Tra questi il suo intervento sul palco del TEDx15 che riprende i contenuti del suo libro “United Breaks Guitars – The power of one voice in the age of social media”.
Oggi, United Airlines utilizza i video di Dave all’interno dei propri corsi di formazione.
Tratto dal terzo capitolo del testo Internet e Reputazione aziendale, a cura di Stefano Previti (Utet Giuridica, 2016)