Vuoi arrivare davvero alla meta? Distruggi le tue aspettative
Attendere e aspettare non sono propriamente sinonimi e non dovremmo mai usarli in modo improprio. Anche i termini che da essi derivano hanno sfumature di significato importanti, che spesso ci traggono in inganno. In linea generale l’attesa è la tensione (positiva) verso qualcosa che deve arrivare e che desideriamo, mentre spesso aspettiamo qualcosa di negativo, come ad esempio una punizione o una condanna.
Potremmo anche dire che si aspetta qualcosa che potrebbe capitare, mentre si attende qualcosa che vogliamo che capiti e che siamo ragionevolmente certi che accadrà. Si attende un amico che deve arrivare, una fidanzata che si sta preparando per uscire, un premio, un regalo. Qualcosa verso cui siamo protesi e che in qualche modo o misura abbiamo meritato o fatto in modo che accadesse.
Un po’ come cerca di spiegare la frase di Gotthold Ephraim ripresa da una nota pubblicità: “L’attesa del piacere è essa stessa piacere”.
Perché, allora, siamo spesso tentati di dare un senso positivo al termine “aspettativa”, insidiosamente derivato dal verbo aspettare? Perché non riusciamo a comprendere come, quasi sempre, le nostre aspettative non portino niente di buono e non aggiungano niente alla nostra esistenza?
È proprio da qui che dovremmo partire, per migliorare le nostre vite e spingerci davvero verso i risultati che vorremmo ottenere: distruggere le aspettative e protenderci verso i nostri obiettivi in un’attesa tutt’altro che statica e passiva. Un’attesa fatta di impegno, passione, convinzione, pazienza, resilienza che di certo porterà i suoi frutti, che non ci limitiamo ad aspettare, ma che desideriamo e perseguiamo senza sederci su nessuna aspettativa.
Aspettando Godot
Era appena trascorsa la prima tragica metà del secolo scorso, quando il drammaturgo, scrittore, poeta e sceneggiatore irlandese Samuel Beckett compose la sua celebre opera teatrale “Aspettando Godot”. Un brillante pezzo del “teatro dell’assurdo” che l’autore fa ruotare intorno alla condizione dell’attesa, che i protagonisti Vladimir ed Estragon vivono in una scena desolata, dominata da un albero che perde le foglie.
Un tempo sospeso, perso, inutile, che i due barboni vivono lamentandosi del freddo, della fame e del loro misero stato, come spesso finiamo per fare tutti noi. Poco importa chi sia davvero il Godot che i due aspettano, perché la vera protagonista della scena di Beckett è la frustrazione, la peggiore condizione esistenziale cui un essere umano possa sottoporsi. Quella di Vladimir ed Estragon non è un’attesa, infatti. I due aspettano e fatalmente aspettano l’ineluttabile. Nessuno verrà a salvarli dal freddo e dalla fame, nessuno li aiuterà, li accudirà, offrirà loro vestiti puliti e un bagno caldo, perché il motivo unico del loro dramma è l’assoluta immobilità che li contraddistingue: due uomini immobili, che si lamentano davanti a un albero che perde le foglie, aspettando qualcuno che non arriverà.
Dall’aspettativa all’attesa
Vi ricordate quando da ragazzini vi chiedevano cosa avreste voluto fare da grandi? Tra le risposte più frequenti c’erano lavori affascinanti, spesso pericolosi, mai banali: astronauta, pilota, chirurgo… Decine di lavori rari, difficili, talvolta insoliti, per i quali alcuni sviluppavano pericolose aspettative, quasi sempre destinate a diventare rimpianti.
Paradossalmente, invece, molti dei personaggi che sono arrivati a traguardi importanti avevano da bambini sogni molto meno eclatanti, se non addirittura banali.
Non si tratta di un teorema, ovviamente, ma questo paradosso ha una spiegazione semplice: le aspettative portano fuori strada, distraggono, generano ansia, insoddisfazione, frustrazione. Chi è davvero libero non si pone dei traguardi, ma cerca e trova una strada per ottenerli. Non si aspetta di avere tutto e subito, ma attende con pazienza e sa che i risultati arriveranno, perché è così che si costruisce qualcosa. L’attesa di una madre per il suo bambino è qualcosa di dinamico, in cui ogni scelta e ogni azione è preziosa. Basterebbe aspettare, come del resto molti chiamano quello stato, ma soltanto pochissime si limitano ad essere donne che aspettano. Sono già madri, invece, mentre i padri impiegano anni per diventarlo, ammesso che alla fine ci riescano davvero.
Per avere un figlio occorre dunque passare dall’aspettativa all’attesa, così come per qualsiasi altro traguardo della nostra esistenza. Ecco perché dobbiamo sempre avere grande attenzione al linguaggio e alle insidie che esso nasconde, impedendoci di apprezzare sfumature fondamentali.