Volete stimolare un vostro dipendente? Non dategli soldi, ma attenzione. Lo dice la ricerca scientifica
Quando riflettiamo sulla relazione tra motivazione e lavoro, di solito pensiamo al denaro come all’unico fattore rilevante. Insomma, l’incentivo monetario viene visto come ciò che spinge le persone a lavorare e come la leva in grado di renderci più produttivi. Ma è proprio così?
Le scienze comportamentali testano questo tipo di impostazione, perché in fin dei conti l’idea che traspare da essa è che gli esseri umani non siano troppo diversi dai topolini di laboratorio che reagiscono a uno stimolo preciso con una risposta altrettanto univoca. Se mi dai un pezzo di formaggio, eseguirò il compito attribuitomi. Se mi paghi un ricco stipendio, farò il lavoro richiesto al meglio delle mie possibilità.
Scansiamo subito eventuali dubbi: il denaro e la retribuzione sono un mattone fondamentale della motivazione e contribuiscono eccome a spiegare la produttività di un lavoratore. Tuttavia la motivazione è un mosaico complesso e soprattutto un’equazione in cui lo stipendio è certo un parametro importantissimo, ma in relazione ad altri. Qui faremo riferimento in particolare a studi che mostrano alcuni aspetti del rapporto tra il lavoro, il contesto in cui viene svolto e il suo effettivo risultato.
Apprezzare il lavoro dei collaboratori è importante
Un esperimento condotto su alcuni studenti universitari negli USA, per esempio, aveva lo scopo di investigare il ruolo che esercitano gratificazione e riconoscimento sulle prestazioni delle persone. I partecipanti sono stati divisi casualmente in tre gruppi: ognuno aveva un’ora di tempo per completare lo stesso esercizio enigmistico, che consisteva nell’identificare, all’interno di fogli pieni di testo scritto, le coppie di lettere che si ripetevano (per esempio, una doppia b o una doppia s). Al completamento di ogni foglio lo studente veniva pagato e poteva decidere se chiederne un altro, meno retribuito, o se lasciare la stanza con il ricavato.
Ciò che cambiava era il contesto in cui i tre gruppi svolgevano l’esercizio: nel primo caso, chi finiva un foglio lo consegnava allo sperimentatore, che esprimeva un cenno di approvazione. Nel secondo caso invece lo studente non riceveva alcun segno da parte dello sperimentatore, che si fingeva non interessato. Nel terzo e ultimo gruppo infine i fogli consegnati venivano immediatamente distrutti nel trita-documenti.
Questo tipo di setting serviva di fatto a riprodurre il meccanismo della gratificazione e del riconoscimento. I risultati sono molto interessanti: chi riceveva il cenno di approvazione svolgeva effettivamente più esercizi degli altri, mentre sia i soggetti del gruppo 2 che del gruppo 3 risolvevano lo stesso numero di quiz. Le implicazioni in termini di organizzazione del lavoro sono essenzialmente due:
1) È abbastanza facile far stare bene le persone rispetto al loro lavoro
2) Ignorare le persone può essere demotivante tanto quanto distruggere il loro lavoro
Più mi paghi, più lavoro: è davvero così?
Un secondo tema su cui l’economia comportamentale può dare un importante contributo in termini di analisi del mercato del lavoro è quello della politica dei bonus: la teoria standard vuole che incentivi monetari più elevati si traducano in un miglioramento della performance, ma funziona proprio così? Pensate ai super bonus dei manager: si tratta di uno strumento in grado di impattare sulla loro performance? E in che modo?
Dan Ariely e il suo team hanno condotto un interessante esperimento sul campo per cercare di trovare una risposta il più possibile generalizzabile a tutto il mondo del lavoro. Per fare questo si sono recati in India, in varie aree rurali molto povere, dove hanno condotto alcuni esperimenti sulla popolazione dei villaggi, chiedendo ai soggetti studiati, divisi in gruppi con condizioni diverse, di fare giochi che richiedevano alcune abilità cognitive (memoria, coordinazione oculo-manuale, destrezza).
Poiché il reddito procapite in queste regioni è molto basso, è stato possibile compiere gli esperimenti con lo stesso budget utilizzato nelle ricche università americane, avendo così la possibilità di testare effettivamente la reazione dei lavoratori a offerte di denaro molto alte.
Il primo gruppo infatti riceveva in caso di performance sopra la media un bonus corrispondente a un giorno di paga di un contadino indiano della sua area.
Il secondo riceveva un bonus pari a due settimane di paga e il terzo, infine, riceveva un bonus pari addirittura a sei mesi di remunerazione. I risultati hanno mostrato in modo inequivocabile che il super bonus produceva, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, un peggioramento della prestazione, probabilmente a causa dell’ansia e dell’insicurezza legata alla possibilità di simile premio. La questione, aperta da questo studio e lanciata alla comunità accademica, è provocatoria e stimolante insieme: se i risultati dell’esperimento sono generalizzabili a tutti i contesti di lavoro, non è forse il caso di ripensare completamente il modo in cui il lavoro viene premiato, anche per il top management?
La rivoluzione del lavoro condiviso e della sharing economy, con l’emergere e il proliferare degli spazi di coworking e di nuovi modelli di welfare aziendale sempre più tesi a valorizzare le relazioni e l’offerta di servizi per i propri dipendenti, sembrano andare nella direzione di una motivazione intrinseca più attenta alla complessità del contesto lavorativo.