Essere unico e diverso dagli altri conta di più che essere i migliori
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Il mondo sta cambiando sotto i nostri occhi ad una velocità folle, che rende impossibile comprenderne appieno gli sviluppi. Questo sta avvenendo in tutti gli ambiti, ma la sfera del lavoro sta subendo stravolgimenti che ad oggi fatichiamo ancora a inquadrare e comprendere. Ancor più se la guardiamo dietro la lente di questa interminabile pandemia, che ci spinge a pensare che niente di ciò che sappiamo sia più certo.
Al di là dei cambiamenti e dei rallentamenti imposti dalla triste parentesi Covid-19, tuttavia, appare ancora più che plausibile che, nei prossimi anni, intelligenza artificiale, automazione e robotica di nuova generazione spingeranno le organizzazioni, le aziende e la società stessa ad abbandonare la ricerca ossessiva di grandi talenti e di figure eccellenti da mettere su qualche piedistallo e venerare come divinità, e si concentreranno invece su altre caratteristiche e profili.
Un vero cambio di paradigma
Ovviamente avremo sempre bisogno di figure di riferimento e di leader. Avremo certamente bisogno di manager, ma la loro capacità di fare davvero la differenza sarà molto diversa da quella che abbiamo sinora conosciuto. Non saremo guidati da robot e da computer, ma quella che già oggi definiamo “data driven society” e la sempre più elevata capacità di creare ed analizzare scenari, renderà molto più interessante e appetibile la capacità delle persone di differenziarsi, prima ancora che quella di eccellere nelle loro specializzazioni. Del resto non è proprio questo che avviene, ad esempio, quando raggiungiamo la maturità sentimentale? Se da ragazzini cerchiamo di conquistare il più bello o la più bella del gruppo, sottovalutando tutti gli altri aspetti, quando capiamo davvero cos’è l’amore e di cosa abbiamo davvero bisogno iniziamo a desiderare qualcuno che sia unico e che ci piaccia per quello che è, anziché per quello che appare.
Ecco perché dobbiamo coltivare la nostra unicità e la nostra diversità, perché sforzarsi di piacere a tutti è un errore imperdonabile in una società composta da miliardi di persone iper competitive e perennemente tentate dall’omologazione, come quella in cui viviamo.
Da numeri a individui
Quando l’era delle “persone/numero” finirà, ammesso che non sia già stata archiviata, apparirà chiaro quanto poco sensato sia compiere tutti lo stesso percorso, acquisire le stesse competenze, puntare agli stessi risultati. Essere il primo della classe ha ovviamente il suo innegabile fascino, ma è una battaglia persa in partenza se significa inevitabilmente omologarsi. Ecco perché le nostre classifiche non hanno più ragione d’essere, se continuano a basarsi su un modello superato e mettono a confronto le competenze o i titoli delle persone, mortificando la loro natura e le loro differenze.
Coltivare la propria unicità è dunque il solo modo per vivere appieno la propria professione e carriera, superando le competizioni sterili e puntando a nuove forme di interazione di crescita professionale, in cui è la complementarietà delle figure in squadra a garantire il risultato, prima e più che l’eccellenza e le competenze dei singoli individui. In un simile contesto, in cui l’abbondanza di dati e di scenari offriranno infinite possibilità e visioni, queste nuove figure non saranno più in lotta tra loro per il primato e per il potere, ma lavoreranno in modo coopetitivo al raggiungimento di molti più risultati e all’apertura di molte nuove strade, come oggi avviene nelle startup più efficienti e con i loro spin-off.
Essere i migliori non è dunque un trend vetusto e superato, ma un legittimo obiettivo da perseguire in modo completamente nuovo, non più cercando la curva giusta in cui superare i nostri competitor, ma creando strade nuove su cui tutti possono correre liberamente verso i migliori obiettivi possibili. Soltanto così potremo essere all’altezza delle macchine che stiamo portando nel nostro lavoro, senza il timore che ce lo portino via.
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