Studiare significa costruire ponti invece che muri
“Gli uomini non hanno più il tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte”, si legge a un certo punto ne Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry. E non è un peccato tutto questo? Credo che quella frase assuma particolare verità al giorno d’oggi, in cui siamo talmente circondati da una miriade di informazioni apparenti che ci perdiamo davvero il senso e la dimensione delle cose. Qual è l’antidoto a questo pericolosissimo rischio di scollamento dalla verità? Per me la risposta è una sola, anche se si può chiamare in tanti modi: studio, ricerca, scoperta.
Nella mia esperienza personale ho imparato che studiare può essere una potentissima arma. Lo dico anche nel mio libro Il tempo dei nuovi eroi: dopo anni di normale apatia verso le cose del mondo e della vita, un attimo di lucidità mi ha fatto mettere in discussione tutto; è stato allora che mi sono messo a osservare con più attenzione, a studiare, a fare e farmi domande. Ma questo è possibile solo se si hanno gli strumenti necessari a decifrare la realtà che abbiamo attorno, oppure se si sa come trovare (o costruirsi) quegli stessi strumenti.
Più in generale studiare è il mezzo con cui impariamo come relazionarci col mondo, come affrontarlo, come risolvere i problemi e non crearne agli altri. Non deve essere mai un impegno gravoso o un disvalore, ma sempre e comunque una potenzialità di evoluzione. Per me è assurdo che, oggi, i giovani siano spesso disinteressati all’educazione o, meglio, non vedano in essa un modo per aumentare le possibilità di realizzarsi nella vita.
Tuttavia in anni come questi, non certamente facili da più punti di vista, studiare vuol dire investire su sé stessi. In Italia, in particolare, questo concetto non è molto diffuso: secondo dati Ocse che si riferiscono al 2015, a fronte di un abbassamento del tasso di occupazione dei giovani fra i 20 e i 24 anni (dal 32 al 23%), è rimasto invariata la percentuale di chi, in questa stessa fascia d’età, continua a istruirsi (41%). Ciò significa che l’istruzione non è vista come una chance in più di trovare lavoro.
Eppure non si può scaricare la responsabilità solo sui nostri ragazzi. Se provano una disaffezione per la cultura e la scuola, ciò è anche conseguenza di una società che sembra andare troppo di corsa per rendersi conto di quanto i valori educativi siano fondamentali. Dare più fondi agli istituti, promuovere iniziative culturali, motivare gli insegnanti sono obiettivi cruciali di ogni Paese che crede nello sviluppo dei propri cittadini.
Ripartire dagli esempi che riempiono di orgoglio e positività, questo bisogna fare. Come è accaduto con le storie degli insegnati premiati nelle scorse settimane con l’Italian Teacher Prize. Vite che parlano di eccellenza, dedizione, spirito di sacrificio e di un’instancabile fiducia nel futuro degli studenti e sulle loro infinite possibilità, anche nelle situazioni più complesse e difficili. Perché tutti gli spiriti giovani vanno guidati e incuriositi, stimolati a comprendere che là fuori il mondo è fatto di milioni di cose che val la pena scoprire e conoscere.
Viviamo in un mondo pieno di potenzialità e di possibilità di integrazione, in cui l’unico nostro obiettivo dev’essere quello di rompere i limiti che le nostre visioni tradizionali ci impongono. Aprire la mente e la conoscenza a tutto il sapere che c’è là fuori: mi sembra il primo, fondamentale passo per non costruire muri fra noi e gli altri, ma prima ancora attorno a noi stessi.