Soft skills, necessarie ma impossibili da definire
Soft skills, una combinazione di termini che si sta facendo sempre più spazio nella valutazione delle persone, soprattutto in ambito professionale. Si distinguono dalle hard skills perché rispetto a queste esse rappresentano le abilità che ognuno di noi sviluppa svolgendo le normali attività di tutti i giorni diversamente da quelle più tecniche, hard appunto, che si possono imparare studiando. Le soft skills rappresentano, in senso generale, le caratteristiche che appartengono agli individui in merito a capacità sociali e relazionali, flessibilità organizzativa, atteggiamento più o meno comunicativo, e così via. In effetti sono tutte peculiarità che non provengono da una preparazione precisa e attenta proveniente da un puntuale studio di testi, manuali o corsi di formazione. Piuttosto sono il risultato della natura con la quale ci si presenta agli altri.
Fin qui nessuna novità, se non nel fatto che probabilmente questi aspetti non li avevamo mai chiamati con i termini soft skills ma piuttosto con nomi generici che per noi rappresentano gli indici con i quali valutiamo qualcuno e lo consideriamo nella sfera più o meno intima dei rapporti personali. Di una persona infatti possono colpirci il modo di parlare, le attenzioni con cui si relaziona a noi, la capacità di risolvere i problemi, il rispetto, l’affidabilità e la puntualità. Caratteristiche che possono fortemente condizionare il fatto che una persona ci possa piacere o meno.
Qualcosa però è cambiato perché da semplici aspetti di condizionamento dei rapporti personali, esse sono diventate indice di valutazione delle persone in ambito professionale. Da istintiva valutazione non ragionata della natura di un individuo che effettuiamo in ogni occasione di relazione, le soft skills diventano l’elenco ragionato delle capacità naturali di una persona, a tal punto da rispondere ad una definizione precisa secondo la quale un professionista o le possiede o non le possiede. Cosa è successo?
Ancora una volta il cambiamento dei tempi che non resistono a lungo nel rimanere uguali a se stessi, a dispetto di una generazione fa in cui – se cambiavano velocemente – comunque chiedevano almeno un decennio per attuarsi. Sono cambiate le esigenze delle aziende e, soprattutto, è cambiato il valore aggiunto che esse richiedono a chi entra a farne parte. Non basta più essere bravi ingegneri, esperti di marketing, capaci amministratori, innovativi brand manager o chissà cosa altro. Il mercato è pieno di laureati a pieni voti a tal punto che questo non rappresenta più il motivo per cui qualcuno possa essere inserito in questo o quel team. Il mercato ora cerca chi è capace di affrontare aspetti del work flow che fino ad ora non erano stati considerati come fondamentali per poter svolgere un compito. Ci si è accorti, in sintesi, che ciò che rende un’idea unica non è più l’idea in se stessa, ma il modo con cui questa viene attuata. E se da un lato l’aspetto meramente esecutivo continua a rappresentare la componente tecnica necessaria a garantire il funzionamento di un’idea, dall’altro diventano prioritari i metodi che le singole persone che partecipano ad un progetto utilizzano per gestire quel work-flow in tutti i suoi aspetti. Condizionamenti come l’incapacità dei componenti di un team di relazionarsi sia tra loro che con l’esterno, oppure il non rispetto delle scadenze, l’incapacità di organizzare autonomamente un processo di ricerca per capire la soluzione ad un problema, per non parlare dell’incapacità a comunicare in maniera chiara e sintetica un pensiero, l’empatia, il mantenimento di valori etici, sono diventati aspetti capaci di far naufragare l’attuazione di un’idea per quanto questa sia geniale.
Nasce da sé, tuttavia, una considerazione. Ma fino ad ora questi aspetti non venivano calcolati? Perché? Non sempre stati considerati necessari così come nei rapporti personali? Soprattutto, è possibile che il mercato abbia necessità di queste abilità? Sì, è possibile.
Se da un lato infatti il bel voto di laurea, il master in questo o quello, le lingue parlate o le conoscenze informatiche fondano ancora le valutazioni delle aziende dalla gestione più tradizionale, dall’altro è nato e si sviluppa un mercato che apre ad abilità nuove che ancora non hanno avuto tempo e modo di diventare materie di studio nelle più o meno blasonate accademie pubbliche o private. Per garantirsi nella scelta di persone capaci ad affrontare un percorso professionale inedito, quindi, l’unico atteggiamento è quello di garantire la creazione di gruppi di lavoro in cui quelle caratteristiche personali – le soft skills – possano concorrere a creare percorsi di sviluppo in cui qualsiasi tema venga affrontato, verrà trattato con apertura, intelligenza, partecipazione, collaborazione e così avanti.
Le aziende di stampo più rigido, ma non per questo poco attente alle evoluzioni del mercato, non sono rimaste a guardare. C’era da aspettarselo. E allora comincia ad essere frequente che nelle job description dei big brand trovi spazio un paragrafo specifico sul possesso delle soft skills, a volte genericamente dette, a volte citate nello specifico. E sì, perché ancora non è così facile avere il coraggio di capire da un curriculum vitae se una persona è un buon problem solver o meno. Le soft skill fanno parte di una valutazione che non finisce mai, lo sappiamo dalla fatica che facciamo inconsapevolmente quando valutiamo le persone che abbiamo intorno fino a farle diventare dei buoni amici, dei semplici conoscenti o, al limite, persone da non frequentare.
La capacità di valutare questi aspetti a volte è essa stessa una soft skill e sarà sempre più difficile capire se ci sono soft skill indiscutibili come un voto di laurea o il livello di conoscenza di una lingua straniera. Dobbiamo solo capire se sarà meglio essere preparati e scostanti piuttosto che meno preparati ma empaticamente più dotati.