Come abbiamo cambiato la nostra idea di distanza sociale per il virus
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Mi accorsi della relatività della distanza durante la mia permanenza a Roma. La Capitale è un’enorme giungla, fatta di stradine, vicoli, grossi viali alberati, palazzi umbertini con le facciate eleganti e, più in periferia, di alti palazzoni anni Cinquanta, con quell’aria già stanca e consumata.
Mi accorsi di quanto avessi modificato la mia percezione, soprattutto, quando qualcuno dei miei amici da Lecce veniva a trovarmi. Ciò che per me era una distanza corta, facilmente percorribile, a loro sembrava un lungo viaggio, sensazione probabilmente alimentata dalla macchinosità dei tram dell’Atac. Quello che mi colpiva di più era proprio il gap percettivo, benché fossi certo che la distanza potesse essere uno spazio misurabile ed empiricamente numerabile. Due chilometri, o cinquecento metri. I numeri segnano esattamente lo spazio percorso. Allo stesso modo succede nelle relazioni interpersonali. Sempre più spesso mi capita di imbattermi in diatribe su quanto possa essere intimo dare a uno sconosciuto il proprio numero di cellulare, in qualche modo la poca confidenza iniziale è relegabile ad altri social, più sporadici, che danno la sensazione di una distanza maggiore tra i due interlocutori.
Chi è nato negli anni Novanta, a cavallo tra l’offline e l’online, non si sorprenderà dell’ennesimo repentino cambiamento di metodologia comunicativa. Lo squillo, solo una decina d’anni fa, era il segnale comunicativo di ricerca dell’altro. Ora potrebbe essere inteso come una prepotenza verso il limite della propria distanza intima: prima vi sono infatti ben altri gradi di separazione, l’indirizzo e-mail, poi Facebook, quindi Instagram, infine il proprio numero di cellulare. Insomma la stratificazione comunicativa della società si addensa di nuovi veli, mascherandoli con la promessa di una connessione spaventosamente totale. A maggior ragione nel 2020 — l’anno della pandemia, del destino comune, della disgrazia domestica, dell’apocalisse sociale — il covid ha rimescolato le carte, diciamocelo, confondendo un po’ ciò che è intimo e ciò che non lo è più. In un panorama in cui l’unica libertà è la connessione virtuale, prontamente usufruita nelle più o meno comode mura di casa propria, il rischio di intersecazione di livelli comunicativi è alto. Un esempio ne è stato l’utilizzo spasmodico delle videochiamate, a qualsiasi ora e a qualsiasi costo, anche palesemente con un nulla di interessante da dire, al solo scopo di non sentirsi soli. Pratiche che hanno cavalcato la frantumazione della routine, in fondo; dissoluzione dettata dall’unica cura possibile per una pandemia globale: l’isolamento.
Un po’ come Roma e Lecce, le distanze esistono e si sviluppano in modo oggettivo e misurabile anche tra le persone. Il gap è reale, ma ciò che, come per i tram capitolini, distorce la percezione del tempo e dello spazio percorso è il modus con cui quest’ultimi sono vissuti ed esperiti.
Una branca della semiotica studia in modo sistematico la distanza tra le persone. La prossemica è ciò che analizza non solo il linguaggio del corpo nello spazio, ma anche il significato del percorso che esso compie per raggiungere un altro punto o un altro individuo. Si tratta dei quattro gradi di distanza interpersonale, teoria coniata dall’antropologo Edward T. Hall. Se la distanza intesa in modo totale fosse un frutto, sulla buccia più esterna troveremmo la distanza pubblica, che va da un minimo di tre metri. Si tratta della distanza che viene adottata nelle conversazioni in pubblico in cui è praticamente impossibile interagire con il singolo. Tagliando la parte più coriacea, si arriva alla distanza sociale che va da un minimo di centoventi centimetri fino ad un massimo di trecento centimetri. Queste misure, sono quelle da adottare quando si discute un rapporto formale e permettono di trovare una situazione di comfort quando ci si ritrova a dover parlare durante colloqui di lavoro o trattative importanti. La polpa è invece ciò che l’antropologo definisce distanza personale, dai quarantacinque ai centoventi centimetri, la distanza ideale per la cultura occidentale: lo spazio necessario per una stretta di mano. Al livello del nocciolo, invece, vi è la distanza intima da zero a quarantacinque centimetri. Questo anfratto di spazio è il posto che riserviamo agli affetti più stretti, agli amici più cari e alle relazioni più intime.
Cosa succede però se queste misure interpersonali vengono infrante, eccedute sia come vicinanza che come lontananza? In special modo se la distanza da tenere da ogni persona è di minimo un metro. E se la persona è un affetto intimo da cui si è costretti a distanziarsi? Il risultato inevitabilmente è che Lecce diventa Roma e il corto percorso di una carezza, diventa lungo quanto la Prenestina. Ma per esserne sicuro ho chiesto alla dottoressa Federica Micale e alla dottoressa Giulia Amicone, psicologhe e co-founder di Apsicologa (@apsicologaitalia), un profilo Instagram nato con una doppia valenza: da una parte vetrina del servizio che entrambe le professioniste svolgono, dall’altra come metodo “facile” per portare la psicologia a un pubblico più vasto, tramite una divulgazione scientificamente precisa ma con un tono più innovativo.
Com’è cambiata secondo voi la percezione delle distanze tra le persone dopo il periodo di quarantena?
Durante la quarantena possiamo dire che il mondo intero ha ridefinito il concetto di “relazione”. Se prima della quarantena il valore di una relazione era ascrivibile alla vicinanza fisica, da dopo la quarantena abbiamo ricostruito la misura delle distanze interpersonali e sociali. Cosa vuol dire adesso essere distanti e cosa vuol dire adesso essere vicini. Siamo stati portati, nel bene e nel male, ad essere continuamente vicini attraverso artefatti culturali digitali, ma siamo stati anche indotti ad essere fisicamente lontani. Ci si trova vicini quando si ha uno schermo che separa due persone, ma anche quando tra noi e l’altra persona abbiamo un pannello di plexiglass o il tessuto di una mascherina. La quarantena ci ha obbligati ad imparare che qualsiasi sia la distanza sociale e/o fisica, si può essere psicologicamente vicini se si vuole.Cosa provoca l’isolamento quindi o cosa provocherà nelle relazioni?
L’isolamento ci ha portato a ripensare i nostri spazi personali e condivisi e a riflettere sulle nostre relazioni, e sul loro valore e significato. Può aver portato un cambiamento nei confini delle nostre relazioni, che sono diventati a volte più stretti e altre volte più ampi. Pensiamo alle persone che hanno vissuto insieme durante la quarantena: hanno dovuto trovare un nuovo equilibrio, nel gestire gli spazi condivisi della casa e il tempo a loro disposizione, magari apportando dei cambiamenti nella loro relazione. E questo è avvenuto sia per le relazioni di coppia, che per le relazioni familiari o di semplice convivenza. Anche chi ha vissuto relazioni a distanza durante l’isolamento ha dovuto ristabilire un nuovo equilibrio: dal semplice fatto di poter passare del tempo insieme solo attraverso messaggi, videochiamate e telefonate, al fatto di poter condividere con l’altra persona momenti diversi rispetto al solito (e aver anche molte meno argomenti di cui parlare). Ora che non siamo più in isolamento le nostre relazioni devono comunque tener conto dei diversi equilibri che abbiamo creato nei mesi passati, e guardare al futuro considerando tutti questi aspetti.Se esiste, qual è il metodo per riequilibrare le giuste distanze?
Nel riequilibrare le distanze è importante considerare ogni relazione nella particolarità che la caratterizza. Non esiste un metodo specifico per farlo, né un modo solo giusto o solo sbagliato. Quello su cui si può lavorare è la comunicazione: nel costruire e trovare nuovi equilibri nelle nostre relazioni è fondamentale esprimere con chiarezza i nostri bisogni, e desideri, e formulare le nostre richieste con sincerità. Allo stesso modo, dobbiamo accogliere ciò che l’altra persona ci sta comunicando, attraverso un ascolto attivo e interessato. La comunicazione assertiva è proprio questo: condividere i nostri pensieri, proposte, e necessità sempre ascoltando quelli dell’altra persona, per costruire una relazione basata sulla chiarezza e il rispetto reciproco. Così, senza una specifica ricetta di ridefinizione delle distanze, meglio infilare le cuffiette; se il viaggio in tram per un saluto durerà più del previsto, avremmo almeno ascoltato un buon album.
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