Si può davvero scherzare su tutto?
Ormai da molti mesi accade puntualmente, soprattutto sui social ma anche nei media tradizionali, che venga portata all’attenzione una vignetta o una battuta capace di sollevare una stessa questione: ci sono argomenti tabù per l’umorismo o la satira? Oppure la libertà d’espressione deve essere rispettata a ogni costo, contro ogni censura? Proviamo a fare chiarezza sui tanti punti da esaminare e con qualche esempio.
Innanzi tutto va chiarito che la frase o la battuta espressa in un contesto privato, per quanto grande – una tavolata di amici, una festa con decine di invitati – non può avere lo stesso valore, per le questioni in gioco, di una comunicazione pubblica. Nel contesto privato può infatti valere, se condivisa, una modalità di comunicazione che dà per scontate alcune premesse che rendono lecito il servirsi di allusioni pesanti, scurrilità e volgarità, stereotipi razzisti o sessisti, perché è proprio il contesto “sicuro” a renderle espressioni innocue e accettate. Il classico esempio è un gruppo di amici e amiche dove ci sono anche omosessuali dichiarati o dichiarate, e fioccano doppi sensi e giochi di parole triviali che fuori dal contesto amicale sarebbero senz’altro gravi offese o volgari discriminazioni.
Nel caso della dichiarazione pubblica – la frase di un politico, una vignetta satirica sul giornale, una intervista per la televisione – quello spazio sicuro non c’è più: non si può pretendere di avere valido nel contesto pubblico lo stesso codice linguistico che usiamo con amici e amiche di vecchia data. Per questo si è pensato a quel codice di comunicazione chiamato politically correct: per avere la sicurezza di non colpire la sensibilità di alcuno si usano formule evidentemente artificiali e praticamente impossibili da usare nel parlato di tutti i giorni.
Ci sono poi eventi e situazioni delle quali è molto difficile e complicato parlare. Un classico tabù occidentale, e pienamente giustificato, è quello dell’antisemitismo: basta una frase stereotipata sul carattere degli ebrei, o su alcuni loro difetti tipici, ed ecco affiorare un tipico razzismo. Eppure, si dirà, gli ebrei si prendono molto in giro, ci sono libri che raccolgono le loro “storielle ebraiche” come comici ebrei che fanno spettacoli proprio sulla loro tradizione. Come ci sono anche stand-up comedian che fanno spettacoli sullo stupro – soprattutto, le più note sono donne. In un certo senso, questi due casi riproducono quel safe space di cui parlavamo prima: c’è una sorta di accordo tacito per cui un ebreo può fare battute e umorismo sugli stereotipi del carattere ebreo, e una donna può fare battute sullo stupro. Sempre in virtù di questo tacito consenso, per esempio un uomo non ebreo dovrebbe, in entrambi i casi, essere così bravo da non far pensare, tramite le sue parole, che quello che dice facendo ironia possano essere realmente parole antisemite o sessiste e non battute.
Evidentemente non si può mai prescindere del tutto dalla cultura nella quale si è immersi, che genera aspettative e pregiudizi sia sulla posizione di chi parla, sia su ciò che dice. In più non va dimenticato che l’umorismo e la satira hanno delle qualità che si può essere più o meno bravi a usare. Applicare la trivialità delle “barzellette di Pierino” al tema stupro o profughi produce quasi sempre imbarazzo quando non disgusto; ma gli esempi contrari ed eccellenti non mancano. Sarah Silverman costruisce spesso i suoi spettacoli con diversi rape joke, e riesce a far ridere non solo perché è femminista, ma perché deride gli stupratori e non le vittime; Maysoon Zayid si definisce “una palestinese musulmana vergine con paralisi cerebrale, del New Jersey, che è attrice, comica e attivista” riuscendo a far ridere di argomenti difficilissimi perché ha il grande merito, prima di tutto, di far ridere di se stessa.
Non stiamo sostenendo che una persona comune non può fare umorismo su alcune categorie di persone o su alcuni eventi perché non appartiene a quelle categorie o non può subire quegli eventi. Stiamo cercando di mostrare che proprio aver fatto certe esperienze ha insegnato ad alcuni e alcune come fare umorismo sugli argomenti più complessi, scabrosi, imbarazzanti. Senza quelle esperienze – essere donna, essere ebreo o palestinese, avere una grave disabilità – non ne sarebbero capaci.
Quindi, certo che si può fare umorismo su tutto: bisogna però esserne capaci. E questo è privilegio di pochi e poche, perché far ridere è un lavoro difficile, delicato e complesso.
Ecco che allora le grida di chi viene contestato – un privato sui social come un vignettista sul giornale – e parla di “censura” nei suoi confronti, o di impedimento della “libertà d’espressione” non hanno senso. Chi fa una brutta battuta, o una vignetta che non fa ridere, prima di tutto ha fatto un pessimo umorismo, ha dimostrato scarsa ironia. La censura la applica il potere costituito e non i singoli – così dice il vocabolario; allo stesso modo, il diritto di esprimersi lo ha anche chi contesta una battuta o una vignetta, non lo si può togliere arbitrariamente. Molte persone che difendono il loro diritto di fare pessimo umorismo, satira accomodante o ironia non ironica dovrebbero semplicemente essere meno presuntuose e fare quelle esperienze che, evidentemente, gli mancano.