Realizzare la propria natura è il modo migliore per essere vitali e, forse, felici
Immaginiamo la sorgente di un fiume. L’acqua sgorga dalle viscere della terra, limpida, pura, impetuosa, carica di quell’energia vitale che può abbeverare, nutrire, alimentare la natura e tutta la meraviglia del mondo. Noi, esseri umani, siamo quella fonte. Nasciamo carichi di tensione vitale, di voglia di fare, crescere, scoprire le cose belle del mondo e goderne i frutti. Siamo potenza, pura potenza che cerca il proprio compimento.
L’ingegno dell’uomo è stato in grado di canalizzare tale potenza, costruendo acquedotti, affinché la carica vitale potesse compiersi in imprese meravigliose, utili per sé e e per la collettività. Ma come ogni bella favola ha il suo contraltare: le perdite dell’acquedotto, quelle falle che limitano la portata, disperdono energie, vanificano l’impetuosità della fonte.
La prima perdita è probabilmente da ricercare in un particolare approccio del sistema scolastico, troppo spesso diffuso: un sistema unico e standardizzato per educare e formare la molteplicità dell’essere umano. Siamo tutti diversi e ognuno di noi è caratterizzato da talenti, passioni, desideri, ma anche contraddizioni, difficoltà, lati oscuri. Impostare un’educazione univoca non può che sprecare enormi spazi di potenzialità, e purtroppo, talvolta, mortificare l’autostima e alimentare il risentimento. Un’altra grande perdita si può avere quando manca l’aiuto a capire quali possono essere i propri talenti e quindi, inconsapevoli del nostro potenziale, ci incamminiamo in percorsi di vita che non sono tagliati a nostra misura, con un’incompatibilità di fondo che rimarrà per sempre. E allora ci ritroviamo in aziende che non abbiamo scelto, a fare lavori che non amiamo, pur di portare a casa uno stipendio, attanagliati dalla paura di perdere il lavoro, lo stile di vita, la posizione raggiunta. Un colabrodo di energie positive. Se poi siamo in aziende che considerano i propri dipendenti come dei numeri intercambiabili, limoni da spremere per la generazione di profitto, la dispersione energetica può sfociare in patologia psicologica.
Un altro esempio magistrale di dispersione di energie è rappresentato dalla burocrazia. Essa rappresenta non solo una semplice piccola perdita dell’acquedotto, ma un sistema di canali di deflusso labirintici, tentacolari e ben studiati, volti ad annichilire qualsiasi forma di entusiasmo. Gli ingegneri della dispersione idrica gioiscono nel veder annullata ogni forma di iniziativa, felici di godere ancora un po’ del proprio piccolo miserabile privilegio. La gerarchia è un’altra forma di spreco. Se l’idea migliore arriva dall’ultimo arrivato è giusto che si imponga surclassando chi è al vertice della piramide. Se ogni idea deve transitare dal livello superiore per imporsi è inevitabile che troverà l’ostacolo, consapevole o inconsapevole, che la farà naufragare.
Allo stesso modo la complicazione disperde infinite energie: se desidero creare un impresa devo trovare terreno semplice, anzi semplicissimo, a livello di norme, per poter affrontare la complessità di un mercato.
E così via… Le dispersioni sono, ahimè, moltissime. Quanto spreco! L’impeto e la purezza della fonte si dissipa in rivoli fangosi. Eppure ne gioveremmo tutti se ogni persona fosse posta nelle condizioni di esprimere le proprie potenzialità, poter realizzare se stessa e contribuire con la propria energia vitale al bene comune. Questa energia non si consuma, anzi, si moltiplica: realizzare la propria natura è il modo migliore per essere vitali e, probabilmente, felici.
Ricordiamoci di questo quando pensiamo a come impostare una scuola, un’azienda, uno Stato; ne va del nostro personale futuro e di quello della collettività.