Quiet quitting: la nuova tendenza che ci impone di ripensare il lavoro
La costante demotivazione e il progressivo affaticamento dei dipendenti delle nostre organizzazioni non sono, purtroppo, temi nuovi. Fenomeni come quello delle grandi dimissioni o del disingaggio attivo all’interno delle popolazioni aziendali sono ormai diffusi a macchia d’olio, non è un caso – infatti – che se ne parli da molti anni senza trovare una corretta soluzione per migliorare il nostro modo di fare impresa. A queste tendenze, più di recente, se ne è aggiunta una ulteriore che – per quanto possibile – è ancora più complessa e difficile da identificare. Si tratta del quiet quitting, espressione auto esplicativa, nata su TikTok e altri social network.
Cosa è il quiet quitting?
È un approccio meno maniacale al proprio lavoro, meno totalizzante e molto meno… impegnato. Se all’apparenza possono anche sembrare connotazioni positive nel tentativo magari di ristabilire un well-being spesso dimenticato nel lavoro post pandemico, sono – in realtà e a conti fatti – aspetti che hanno un impatto estremamente negativo per l’impresa. Il quiet quitting è, infatti, un sostanziale rifiuto del lavoro come generatore di senso della propria vita e una volontà di concentrare il proprio tempo e le proprie forze in altre attività o nel tempo libero, senza – ovviamente – licenziarsi (dall’inglese to quit) dall’azienda.
Ma si tratta di un fenomeno concreto? Secondo i dati di Gallup: sì! Ben oltre le etichette prese in prestito dal mondo americano e dai trend social, pare che sia il 50% dell’intera forza lavoro degli Stati Uniti a essere parte del fenomeno, con picchi ancora maggiori sui più giovani; è, infatti, più del 54% dei nati dopo il 1989 a riferire di non sentirsi coinvolto dal proprio lavoro.
La demotivazione dei dipendenti costa all’azienda (e ai dipendenti stessi)
Ben oltre il semplice fenomeno sociale, la demotivazione dei dipendenti ha un costo imponente per le organizzazioni, specie se di larghe dimensioni. Questo fenomeno si traduce, infatti, in una peggiore circolazione della conoscenza all’interno dell’impresa, in un minore senso di appartenenza, nella maggiore difficoltà nel fare innovazione, in un calo nella capacità di servire il mercato e in una peggiorata efficienza complessiva. Il ritorno negativo in termini economici è consistente: alcune ricerche ne stimano un impatto di oltre 1.5 miliardi di euro a livello globale.
Al di là degli indicatori economici, abbiamo ormai compreso – a nostre spese – che aziende meno a misura d’uomo e di donna ci rendono più infelici, più stanchi, insoddisfatti nella vita personale e più inclini a costruire una società peggiore.
Dobbiamo ritrovare il senso in quello che facciamo
Qual è, dunque, una possibile soluzione per indirizzare correttamente il fenomeno?
Ancora una volta si tratta di un tema di purpose, è su questo che le aziende devono rimettere l’accento per generare nuovi modelli organizzativi che siano veramente protagonisti positivi della vita delle persone. Serve rispondere alla domanda sul perché si fanno le cose, molto più che al come, serve creare valore per l’intero ecosistema sociale, non solo per gli shareholder di un’azienda. Senza arrivare agli estremi di Patagonia, il cui CEO ha “donato” l’azienda per salvare il pianeta, riscrivere il senso del lavoro e delle aziende di cui facciamo parte è oggi una missione sempre più impellente alla quale sono chiamati leader, consulenti, direttori HR e tutti coloro che – a vario titolo – hanno una responsabilità sul ricostruire i modelli esistenti.
Senza questo ingrediente fenomeni come il quiet quitting, le great resignation, la demotivazione diffusa, il disingaggio attivo saranno sempre più endemici all’interno delle imprese.
Per chiudere citando Margaret Wheatley, esperta di comportamento organizzativo: “Il fatto di lavorare per un’organizzazione intenta a creare conoscenze costituisce una magnifica fonte di motivazione; non perché così aumenteranno i profitti dell’organizzazione, ma perché saranno le nostre vite a sembrarci più degne di essere vissute”. È questa la vera sfida che ci attende per disegnare un nuovo futuro del lavoro.